19 Settembre 2018

#ParigiAddio Il dramma della deforestazione

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Dopo le fonti fossili, la deforestazione è la principale causa delle emissioni antropogeniche da cui originano i cambiamenti climatici. Si stima che vi contribuiscano per il 10% del totale. Dal 1990 al 2008 sono state abbattute foreste – che oggi coprono il 31% della superficie terrestre – per 239 milioni ettari, pari ad 8 volte l’Italia.

Da allora, le cose sono peggiorate per la continua espansione dell’agricoltura, lo sviluppo delle infrastrutture, l’estrazione del legno, l’impiego delle biomasse per alleviare la povertà energetica. Deforestazione e desertificazione acuiscono i mutamenti climatici per il minor assorbimento dell’anidride carbonica e il degrado ed erosione del suolo. Ne soffre soprattutto l’agricoltura e chi ci vive poveramente sopra, perché i raccolti non crescono per scarsità o abbondanza di piogge e per l’aumento dei parassiti causato dal maggior caldo.

Gli otto decimi dei paesi che avevano sottoscritto l’Accordo di Parigi si erano impegnati nei loro Piani Intended Nationally Determined Contributions (INDC) di ridurre la deforestazione. L’articolo n.5 stabiliva infatti che “Parties are encouraged to take action to implement and support […] policy approaches and positive incentives for activities relating to reducing emissions from deforestation and forest degradation”. Questo non è avvenuto, mentre nelle varie COP gli Stati ribadivano a parole gli impegni presi.

Secondo il World Resources Institute, si è assistito infatti ad un’accelerazione nei processi di deforestazione con la perdita di un’area pari alla Nuova Zelanda (circa 270 mila km²). Quel che ha contribuito alla ripresa delle emissioni dopo un triennio di loro sostanziale stabilizzazione. Non solo quindi non si è provveduto ad arrestare il degrado delle aree sottosviluppate – che soffrono maggiormente dei cambiamenti climatici pur essendone i meno responsabili – ma lo si è aggravato.

A contribuirvi è una miriade di imprese che operano in un gran numero di settori. Specie nella coltivazione di materie prime per soddisfare i nostri appetiti. Un caso emblematico è quello del cacao per la produzione di cioccolata. La Costa d’Avorio ne produce il 40%. Per lasciar spazio alla sua coltivazione, dal 1960 la sua foresta pluviale si è ridotta dell’80% passando da un quarto a un venticinquesimo del paese. Grandi mercanti sfruttano coltivazioni illegali nell’area protetta del paese per rifornire grandi marchi. Similmente a quanto avviene nella cintura che va dalla Sierra Leone al Camerun alla Costa d’Avorio al Ghana.

Lo stesso può dirsi per la coltivazione delle palme, da cui trarne l’olio per utilizzato per lo più in molti prodotti alimentari. Per comprenderne la portata, si vedano su YouTube i video relativi all’estrazione di olio di palma sull’isola di Sumatra e nell’arcipelago indonesiano, ove si sta distruggendo un ecosistema unico popolato da elefanti, tigri, rinoceronti. Tutte le imprese che sono coinvolte nella supply chain della cioccolata o dell’olio di palma si dicono impegnate ad affrontare il tema della deforestazione, ma i risultati tardano a venire. Alcune si impegnano effettivamente, ma per la maggior parte è solo tattica comunicativa (green wash).

Se all’arresto della deforestazione si accompagnasse una strategia di riforestazione, i benefici sulle sorti delle terre depredate, sulle popolazioni che ci vivono, sul clima si moltiplicherebbero. Mai come in questo caso basterebbe volerlo. Ricordando amaramente la ‘foto di famiglia’ dei 196 paesi sotto la Torre Eiffel.


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