Da pochi giorni è stata aperta la consultazione pubblica sulla proposta di Piano Nazionale Integrato Energia e Clima che il Governo italiano ha presentato a Bruxelles a fine 2018. Nei prossimi mesi il dibattito tra gli addetti ai lavori si concentrerà quindi sugli obiettivi e sulle misure previste dal Piano, sulla loro efficacia, sulla loro bontà, sulla loro solidità, sulla loro adeguatezza, sulla loro ambizione o sulla loro migliorabilità. Tutti aspetti legittimi e degni dell’attenzione di un settore complesso come quello energetico. Tuttavia man mano che la discussione si fa più densa di contenuti, appare come la caratteristica fondamentale dell’azione italiana e ancor più di quella comunitaria dovrebbe essere solo una: il pragmatismo.
L’efficacia delle misure ipotizzate dovrebbe prima di tutto fondarsi sulle abitudini e le necessità di chi l’energia dovrà utilizzarla
All’Europa va riconosciuta la capacità di aver proposto in questi anni ai suoi Membri una chiara vision per il settore e non solo, una vision che dallo scorso novembre comincia a guardare fino al 2050 proprio per individuare le modalità con cui incidere sul problema del cambiamento climatico. Bisogna però anche registrare un difetto, talvolta, di eccessiva complessità. E tale complessità, scaricata sulla singolarità di ciascuno dei 28 Membri, non può che generare una complessità alla 28esima potenza!
Semplifichiamo allora il ragionamento e ritorniamo alle origini della politica energetica europea. Con il 20-20-20 fu declinato il “trilemma energetico”, ossia quel complesso trade-off esistente tra sicurezza energetica, sostenibilità ambientale e sostenibilità economica. Più recentemente la nuova linfa alla base delle politiche energetiche al 2030 si è fondata, correttamente, sugli accordi di Parigi e sull’obiettivo globale di decarbonizzazione. Del resto il Pianeta si trova a dover affrontare la battaglia contro il cambiamento climatico e ridurre le emissioni di gas climalteranti è il primo e più urgente passo verso tale obiettivo.
La politica europea pecca di eccessiva complessità: anziché basarsi su un solo semplice target di riduzione delle emissioni, vincola le strategie nazionali a obiettivi di secondo ordine
Se l’obiettivo ultimo è la decarbonizzazione, la politica europea avrebbe potuto essere efficace anche se si fosse basata su un solo semplice target di riduzione delle emissioni, in una specie di dichiarazione ai mercati e agli stakeholder del tipo “whatever it takes”, un po’ come fece Mario Draghi. Invece i target introdotti da Bruxelles non si sono limitati a definire quale sia la necessità d’azione e l’obiettivo finale, ma disegnano anche una traccia delle traiettorie per arrivare alla destinazione finale (quante rinnovabili, quanta efficienza, in quali usi finali ricercare l’efficienza, …). E poiché ogni Paese ha la propria storia, la propria società, la propria base industriale, le proprie abitudini “one size does not fit all”. Quindi, nella costruzione delle strategie nazionali il dover rispettare obiettivi di secondo ordine potrà rendere meno efficace e meno tempestivo lo sforzo verso l’obiettivo primario, nonostante il fattore tempo sia una variabile importante nella lotta al cambiamento climatico. La questione dovrebbe sintetizzarsi in “quanto” e “quando” decarbonizzare l’economia europea, e piuttosto che sacrificare alcuni gradi di libertà a disposizione dei singoli Paesi attraverso target specifici, l’Unione europea avrebbe potuto fissare un obiettivo di riduzione delle emissioni nel rispetto del framework rappresentato dal “trilemma”.
Alcune delle misure previste nel Piano non massimizzino né le opportunità di sviluppo industriale del Paese, né perseguano il minor costo della manovra energetica o la loro migliore accettabilità sociale
Non sorprende quindi che alcune delle misure previste nel Piano nazionale, pur rispettando i vincoli introdotti dall’UE, non massimizzino né le opportunità di sviluppo industriale del Paese, né perseguano il minor costo della manovra energetica o la loro migliore accettabilità sociale. L’efficacia delle misure ipotizzate dovrebbe prima di tutto fondarsi sulle abitudini e le necessità di chi l’energia dovrà utilizzarla: il settore residenziale italiano è pronto (e ha liquidità sufficiente) per passare a nuove soluzioni di riscaldamento che necessitano di una profonda ristrutturazione delle abitazioni? Fino a che punto il settore industriale italiano potrà passare dal vettore del gas all’elettrico per i propri processi? Accanto alla mobilità elettrica rimarrà spazio per valorizzare a sufficienza anche la filiera nazionale del gas per autotrazione? Trovare una risposta a questi interrogativi, più complessi di quel che possa sembrare, è sicuramente una prima cartina di tornasole per capire se la strategia energetica che stiamo immaginando sia pragmatica o meno.
Affrontare la decarbonizzazione senza valutare l’effetto delle scelte sul cliente finale o le evoluzioni dei comportamenti del cliente, non può che avere un’efficacia parziale o addirittura confliggente
Affrontare il problema della decarbonizzazione solo in una logica top down, senza valutare cioè l’effetto sul cliente finale delle scelte adottate o alle evoluzioni dei comportamenti del cliente, non può che portare ad un’efficacia parziale dell’intero progetto o, addirittura, ad esiti confliggenti con il trilemma stesso. Alcuni esempi sono stati già menzionati su questo blog: penso ad esempio alla complessa dipendenza tra elettrificazione, rapporti con la Cina e sicurezza energetica o alla proporzione non ottimale tra le diverse misure a supporto della promozione dell’efficienza energetica o ancora alla dicotomia tra misure a supporto dei consumatori industriali energivori e gli interventi di efficienza energetica.
Tutte queste considerazioni ci portano ad auspicare un approccio pragmatico alla redazione degli obiettivi e delle misure che costituiranno il PNIEC definitivo e che diverranno poi vincolanti per il Paese. Pragmatico in quanto ad accettabilità sociale, a plausibilità dell’evoluzione dei comportamenti dei diversi consumatori di energia, ad ammontare della spesa da sostenere (sia essa pubblica o ribaltata in bolletta), a valorizzazione delle filiere e delle esperienze nazionali (affinché la transizione energetica si traduca davvero in opportunità industriale) e, infine, al “time to deliver”, per vedere effetti concreti anche nel breve termine.
Stefano Verde, Pianificazione Strategica e Policy Making Gruppo Hera
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