“Abbiamo salvato l’onore delle istituzioni UE riguardo agli Accordi di Parigi” (sic!).
Con queste roboanti parole il lussemburghese Claude Turmes ha commentato la decisione del Parlamento europeo il 17 gennaio scorso di innalzare al 35%, rendendoli vincolanti, sia il target di penetrazione delle rinnovabili al 2030 contro il 27% proposto dalla Commissione che quello di efficienza energetica contro il 30%.
Proposte apparse allo spagnolo José Blanco Lopéz – uno degli altri due relatori dei testi approvati – “Troppo timide”, mentre il terzo, la francese Michèle Rivasi, ha giudicato la decisione come “storica… e trasparente contro le lobby energetiche”.
Alla decisione del Parlamento dovrà seguire un negoziato con la Commissione per pervenire alla posizione finale che è facile immaginare si collocherà a metà strada. Una domanda però sorge spontanea, al di là del merito della decisione che riguarda le rinnovabili ma potrebbe riferirsi a qualsiasi altro comparto: perché proprio il 35% e non magari il 37% o addirittura il 42% o per fare cifra tonda il 45%?
Se è in gioco addirittura l’onore europeo questo e altro! Su quali basi – nessun rapporto è stato reso disponibile – e su quali valutazioni economiche il Parlamento ha deciso? Quali investimenti si dovranno realizzare e su chi graveranno i relativi costi? Che effetti ne deriveranno sul mix delle fonti a partire da quelle tradizionali che dovranno garantire comunque continuità e affidabilità al sistema elettrico?
Domande legittime ma totalmente inevase. L’onore europeo, semmai fosse in gioco, non lo si tutela con decisioni di tal tipo: ma guardando alla dura realtà delle cose che le vedono muovere in direzione contraria a quelle decise a Parigi, con le emissioni che hanno ripreso a crescere trainate dall’auspicata ripresa delle economie e dalle contradditorie decisioni di alcuni paesi, Germania in testa. Gettare il cuore oltre l’ostacolo – senza averne contezza – fa forse fare bella figura ma si rischia di farsi male.
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