Barriere doganali sui pannelli solari. È questa l’ultima decisione presa da Donald Trump, incalzata dai suggerimenti del Dipartimento del Commercio statunitense. Poco importa se la limitazione colpirà la crescita dell’energia rinnovabile a stelle e strisce: i pannelli provenienti dai paesi asiatici non sono più ben accetti sul territorio americano.
L’annuncio arriva dopo che la Suniva e la SolarWorld Americas, i due principali produttori di pannelli ‘made in USA’, si erano più volte lamentate delle importazioni a basso costo provenienti dai paesi asiatici. Quello dei pannelli rischia quindi di essere soltanto il primo capitolo della guerra commerciale tra USA e Cina.
Stando alle prime indiscrezioni, nel solare, le tariffe doganali si attesterebbero il primo anno intorno al 30% del valore del prodotto (fatto salvo i primi 2,5 GW di celle prodotte, che sarebbero esentate), per scendere fino al 15% il quarto anno. Una decisione che comunque non fa gioire l’industria delle rinnovabili: i professionisti del settore ritengono infatti che vi sarà un aumento dei prezzi e un freno alla crescita. Secondo l’associazione di categoria Solar Energy Industries Association, a essere minacciati sarebbero i 23.000 impiegati e miliardi di dollari di investimento nel settore.
I paesi asiatici, dal canto loro, non intendono stare a guardare. Il governo sud-coreano ha annunciato che potrebbe presentare denuncia presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). “Gli Stati Uniti hanno optato per misure che mettono le proprie considerazioni politiche davanti agli standard internazionali del commercio” ha dichiarato Kim Hyun-Chong, il Ministro sudcoreano del commercio.
La Cina, che produce il 60% delle celle fotovoltaiche e il 71% dei pannelli solari mondiali, ha espresso “forte malcontento” e dichiarato che gli Stati Uniti, così facendo, peggiorano l’ambiente economico su scala globale in un contesto già sotto tensione. Senza indicare azioni precise, Pechino ha comunque avvertito che “insieme ad altri membri dell’OMC” difenderà “risolutivamente i propri legittimi interessi”.
Articolo tratto da Les Echos
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