27 Febbraio 2018

Sulla crisi di General Electric

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John Flannery, Amministratore Delegato di General Electric, il 13 novembre ha annunciato il dimezzamento del dividendo, causando la caduta verticale del prezzo dell’azione, peraltro già avviata da mesi.

Riteniamo che la vicenda GE abbia un alto valore simbolico per il capitalismo occidentale: si tratta di un conglomerato immenso, il cui titolo è l’unico, tra quelli quotati a Wall Street, che fa parte dell’indice Dow Jones dalla sua creazione, nel 1896. Il taglio del dividendo è epocale perché in 125 anni di storia era accaduto solo altre due volte: durante la Grande Depressione e nel 2009, cioè subito dopo il crollo dell’economia statunitense. Esso si spiega – e qui veniamo al legame con il tema della transizione energetica – con la flessione degli utili in uno dei settori di punta della compagnia: l’elettrico.

GE non è più riuscita a collocare, nella misura voluta e attesa, le proprie turbine per le centrali a gas, principalmente a causa della penetrazione delle rinnovabili. Nel 2010 gli analisti stimavano che GE avrebbe venduto, annualmente nel mondo, circa 300 turbine per impianti a gas. Ma il numero si è andato via via riducendo: nel 2013 ne ha vendute 212 e, nel 2016, 122. La compagnia, ai cui ricavi il business delle rinnovabili ha concorso per l’8% nel 2016 (23,4% elettrico e 11,4% Oil & Gas), non si è orientata con sufficiente vigore verso le fonti non convenzionali, abbandonando ad esempio il progetto avviato nel 2011 di costruire la più grande fabbrica di pannelli solari negli Stati Uniti. Al contrario, nella fase finale della gestione di Jeffrey Immelt – ai vertici di GE per ben 17 anni – ha investito 10 mld. doll. in Alstom (macchinari per centrali a carbone) e 7,4 in Baker Hughes (servizi Oil & Gas).

La principale chiave di lettura della crisi di GE è in sintesi nell’incapacità di interpretare i cambiamenti del mercato e il crollo dei costi delle rinnovabili che, in certe condizioni, spiazzano il gas. Come esempio i bid per il solare in Arabia Saudita e Messico intorno a 1,7 centesimi di dollaro per kWh. Il caso della General Electric non è isolato: Siemens, ad esempio, sta vivendo gli stessi problemi.

Questi eventi ci dicono che – sebbene la pendenza della curva delle emissioni non sia molto diversa da quella di qualche anno fa e il mix energetico si modifichi troppo lentamente – qualcosa sta accadendo. Eventi che hanno un piccolo impatto sui numeri possono averne uno grande sul business. Ciò che in un bilancio energetico ha debole peso può implicare lo stravolgimento di un equilibrio durato decadi, con influssi nefasti su ricavi, profitti e, soprattutto, occupazione. Lo stesso ragionamento può essere esteso al petrolio: sebbene, come sottolinea la IEA, la domanda tirerà ancora fino al 2025 – sostenuta da petrolchimica, trasporto aereo e trasporto pesante – verrà un momento in cui la penetrazione dell’auto elettrica, seppur oggi assai lenta, comincerà a produrre i suoi effetti, visibili, sul business.

Si potrebbe dire che ciò che è invisibile nei numeri diventa visibile nel business. D’altra parte, l’attuale basso prezzo del petrolio ci ricorda che l’elasticità di reazione di una variabile all’altra può essere straordinaria: se un surplus del 2% nell’offerta di petrolio può causare una caduta del prezzo fino al 70%, una crescita della quota delle rinnovabili di 16 punti percentuali nell’elettrico, come prevede la moderata IEA, può significare lacrime e sangue.

Certo, i tempi della transizione energetica non sono quelli dell’industria delle telecomunicazioni, dove un piccolo oggetto chiamato iPhone può spazzare via dalla circolazione, in pochi anni, un gigante di nome Nokia. È vero, i tempi sono diversi: la transizione energetica procede al piccolo trotto. Ma ciò per il business può significare galoppo e frenesia: è tempo che esso si prepari.


Il post presenta l’editoriale Parigi due anni dopo: alcune riflessioni sulla transizione energetica scritto da Enzo Di Giulio e pubblicato nel numero 4.17 di Energia

Enzo Di Giulio insegna Economia Ambientale all’Eni Corporate University ed è membro del Comitato Scientifico di Energia


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