La congiuntura metanifera nell’Unione Europea del 2017 ha proposto alcune conferme e importanti novità. Tra le prime: l’ulteriore sensibile crescita della domanda, risalita ai livelli 2010; l’inarrestabile declino della produzione interna, oggi la metà di quella d’inizio Millennio; il balzo a due cifre percentuali delle importazioni, con un costo salito a 75 miliardi euro (+28%).
Altra conferma: la leadership della Russia nelle importazioni europee (43% totale) con un balzo del 12% grazie anche all’avvio di una nuova rotta col primo cargo di GNL da Yamal da parte della privata Novatek, che ha rotto quindi il monopolio di Gazprom. Conclusione: le sanzioni non hanno impattato in alcun modo sull’energia, dominante nell’interscambio, che anzi ha conosciuto accordi come mai in passato. Da ultimo, la partnership nucleare tra il colosso russo Rosatom (33 centrali ordinate per 130 miliardi dollari) e i campioni francesi (Edf, Engie, Framatome).
Due le novità. La prima è che per la prima volta l’Olanda è divenuta importatrice netta di metano. La grande bonanza avviatasi nei primi anni Sessanta – e il lungo dibattito sull’effetto negativo che ne sarebbero potuti derivare per l’economia olandese, la Dutch Desease – va quindi a spegnersi. Non solo per il declino naturale dei giacimenti, ma anche per la decisione del governo dell’Aia di ridurre sino ad azzerare la produzione del giant field Groningen che aveva toccato punte di produzione di 80 miliardi metri cubi. Morale: per l’Unione andrà progressivamente a inaridirsi una fonte interna di approvvigionamento proprio mentre aumentano i fabbisogni.
Di tutt’altro segno la seconda ‘novità’, rispetto almeno alle aspettative che la politica aveva dato ad intendere. La Norvegia per il quarto anno successivo ha infatti aumentato la produzione di metano, destinata quasi interamente all’export. Novità perché il fondamentalismo norvegese pro-clima e contro le fonti fossili faceva pensare ad un ripiegamento e non certo ad un aumento della sua produzione.
La verità è che Oslo è il caso più eclatante e irritante di ipocrisia ambientale: il “Norwegian Paradox” come l’ha definito il New York Times. La Norvegia è stato infatti il primo Stato a ratificare formalmente l’Accordo di Parigi salvo una settimana dopo aprire alle esplorazioni petrolifere le acque del Mar Artico tra le aree ecologicamente più vulnerabili. Per tale decisione lo Stato è stato chiamato a giudizio da Greenpeace e altri movimenti per violazione dell’Accordo di Parigi e della stessa Costituzione che, all’art. 112, recita “Everyone has the right to an environment that safeguards their health and […] future generation”. Il paradosso è evidente. Se, infatti, da un lato, la Norvegia vuole pervicacemente massimizzare lo sfruttamento delle sue riserve di petrolio e metano (dieci per cento della ricchezza del paese), appoggiandosi al ‘braccio armato’ Statoil – che dopo 45 anni ha cambiato il suo nome in Equinor (Equal, Equality, Equilibrium), dall’altro lato, tende ad accreditarsi come la più green del reame.
Apice dell’ipocrisia è il Norwegian Government Pension Fund, il più grande fondo sovrano al mondo con un patrimonio prossimo a 900 miliardi dollari (170 milioni pro-capite!), che ha messo all’indice una blacklist di imprese high-carbon che non soddisfano, a suo dire, rigorosi criteri di ‘responsabilità ambientale’! E ciò, nonostante le sue casse siano rimpinguate dalle rendite minerarie della connazionale ex-Statoil (anch’essa controllata dallo Stato).
La morale è che la Norvegia forte della sua bassa popolazione (5,2 milioni abitanti), delle abbondanti risorse idriche di cui il buon Dio l’ha dotata, delle non meno abbondanti risorse di legname – il famoso Norwegian Wood – che riscalda molte delle abitazioni, può permettersi di esportare tutta la sua produzione di petrolio e metano: esportando emissioni in misura molto più ampia di quelle prodotte all’interno.
Che il politicamente corretto tenda a magnificare il caso norvegese per la parte che le conviene (mobilità elettrica), volutamente dimenticando l’altra parte molto più negativa per i cambiamenti climatici, non fa che alimentare quei sentimenti di diffidenza nell’opinione pubblica che sono esattamente il contrario di ciò che bisognerebbe alimentare nella coscienza collettiva.
[…] già trattato su questo blog il tema dell’ipocrisia ambientalista della Norvegia. Ma val la pena tornarci […]