“Intendiamo perseguire il miglior modo per difendere l’interesse nazionale. Lo Stato è in grado di farlo meglio attraverso la regolazione piuttosto che con la presenza nel capitale delle imprese”. Una simile perentoria affermazione potrebbe attribuirsi benissimo a Lord Nigel Lawson che fu prima segretario di stato all’energia poi cancelliere dello scacchiere nel governo di Margaret Thatcher dal giugno 1983 all’ottobre 1989.
L’uomo icona dell’ondata liberista di quegli anni, che smantellò l’industria carbonifera, aprì al mercato ogni industria, gestì l’uscita dello Stato dalle imprese. Perché, ebbe a dire in un famoso discorso all’House of Commons nel novembre 1981: “The business of government is not the government of business”. E così fu, con la privatizzazione di tutte le imprese pubbliche, ivi comprese quelle energetiche. Parallelamente, venivano istituite le autorità di regolazione, a iniziare da quella elettrica presieduta per circa un decennio dal Professore Stephen Littlechild, punto di riferimento delle autorità degli altri paesi e delle prime esperienze della new regulation.
Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti inglesi se è vero, come è vero, che la Gran Bretagna da simbolo del mercato è divenuta, nel silenzio assordante di chi più l’acclamò, simbolo del neo-dirigismo. Ove il business dei governi è tornato ad essere – almeno nel settore energetico – il governo dei business (caso emblematico: l’accordo a trattativa privata tra Governo e Edf per la costruzione di una centrale nucleare a prezzi non di mercato).
Il pendolo tra Stato e Mercato ha preso quindi ad oscillare a favore del primo. Per più motivi: perché il binomio liberalizzazioni/privatizzazioni non ha dato i risultati attesi, specie per i consumatori; perché gli orientamenti della politica sono drasticamente cambiati; perché nuovi interessi generali sono andati affermandosi, specie in materia ambientale, cui il mercato non è in grado di dare adeguate risposte.
Nell’energia non vi è ormai governo che non intervenga in materia di prezzi, avvertendo l’impopolarità del loro aumento (nonostante la caduta dei costi della materia prima); che non alteri il gioco concorrenziale tra le fonti favorendo quelle low-carbon; che non riduca gli spazi di quel libero mercato sublimato dalle liberalizzazioni di due decenni fa.
Il pendolo non si sta poi allontanando solo dal versante mercato ma anche da quello proprietario con governi ed enti locali che vorrebbero riprendersi il controllo di pezzi dell’industria. Nel suo programma elettorale Jeremy Corbyn, leader del Partito Laburista, ha inserito la ri-nazionalizzazione dei settori delle ferrovie, acqua, energia e poste. Una prospettiva che a dire dei sondaggi incontrerebbe il favore di oltre il 70% dell’opinione pubblica. Anche dovesse vincere Corbyn difficilmente sarebbe in grado di dar seguito alle sue promesse elettorali, se non altro per l’elevatissimo costo delle ri-nazionalizzazioni (124 miliardi di sterline solo per le sei utilities elettriche), ma già il fatto che se ne dibatta è significativo.
Contro questa rinnovata tendenza statalista – ironia della storia – si sta muovendo la patria dello statalismo, del dirigismo, dei campioni nazionali: la Francia. Ne è conferma la frase riportata all’inizio che non è di Nigel Lawson o di qualsiasi altro liberista, ma – assoluta novità e sorpresa – del Ministro delle Finanze francese Monsieur Bruno Le Maire, che si è detto determinato a cedere il controllo o quote importanti di imprese pubbliche – tra cui (parrebbe) Aeroporti di Parigi, l’energetica Engie, la ferroviaria SNCF, Française des Jeux – per investirne il ricavato atteso di 15 miliardi di euro nella riduzione del debito e nelle nuove tecnologie dell’intelligenza artificiale, dello stoccaggio delle energie rinnovabili, dello stoccaggio di dati. “Perché – ha ribadito – lo Stato non ha la vocazione a dirigere imprese concorrenziali”. Della serie…l’acqua che va in salita.
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