25 Giugno 2018

Navigazione a vista…

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Alla 174° Conferenza tenutasi a Vienna il 22 giugno, i 14 paesi Opec, sotto l’egida dell’Arabia Saudita, hanno deciso di allentare la riduzione dell’offerta di petrolio concordata nel novembre 2016 con altri 10 paesi, capeggiati dalla Russia.

Una “Declaration of Cooperation”, prima mai riuscita, tra paesi che coprono il 70% delle esportazioni mondiali di petrolio, frutto in primo luogo dell’intesa politica, altra assoluta novità, consolidatasi tra Arabia Saudita e Russia dopo lo storico incontro a Mosca nel febbraio 2017 tra Valdimir Putin e il re Abdullah bin Abdul Aziz.

L’obiettivo primo di quell’accordo era di riequilibrare il mercato inondato da un mare di petrolio che aveva causato un crollo sino a minimi dell’80% dei prezzi dal 2014. Ne seguì un sensibile taglio dell’offerta di 2,6 mil.bbl/g addirittura superiore, terza novità, a quello concordato di 1,8 mil.bbl/g (di cui 1,2 Opec) principalmente a motivo di cali non volontari in molti paesi (Iraq, Venezuela, Messico, Angola, Libia).

Calo della produzione – pur se in parte bilanciato dalla crescita di quella americana – e robusta crescita della domanda hanno riequilibrato i fondamentali reali del mercato col prosciugarsi delle scorte sotto i livelli medi dell’ultimo quinquennio, esattamente come si era prefissata l’Organizzazione di Vienna. Nel giro di diciotto mesi i prezzi hanno preso a risalire superando addirittura gli 80 doll/bbl, circa due volte quelli di partenza. Troppo per non incentivare la concorrente produzione americana, deprimere la domanda, ricreare condizioni di oversupply.

A motivare lo strappo dei prezzi è stato l’aggrovigliarsi di tensioni geopolitiche: dal ritiro dell’America dall’accordo sul nucleare iraniano e la minaccia di reintrodurre severissime sanzioni all’Iran; alla lenta agonia del Venezuela; ai conflitti interni e tra altri paesi. Da qui la volontà dell’Opec, si legge nel comunicato finale del vertice di Vienna, di ricreare condizioni di “stabilità al mercato” garantendo “ai paesi consumatori un’efficiente, economica, sicura offerta e un equo ritorno dei capitali investiti” così da riattivare il flusso degli investimenti.

La decisione è di portare l’adesione al taglio della produzione dell’universo Opec dal 152% del maggio 2018 al 100% dal 1° luglio prossimo, con un aumento dell’offerta stimabile in 0,6 mil.bbl/g. Un aumento gioco forza proveniente soprattutto dall’Arabia Saudita che, grazie anche al buon livello delle sue riserve, dovrebbe prevenire ogni paventato deficit d’offerta (sino a 1,8 mil.bbl/g) nella seconda metà dell’anno. Alla decisione OPEC si è affiancato il supporto dei paesi non-OPEC aderenti alla “Declaration of Cooperation” ed emerso nel meeting congiunto tenutosi all’indomani di quello del cartello, il 23 giugno: l’obiettivo complessivo, pur in assenza di indicazioni precise, riflette quello dell’Opec di riportare la compliance al 100% eliminando i tagli in eccesso. Il dato rispetto a cui stimare l’aumento produttivo complessivo è quindi la compliance Opec e non-Opec di maggio (147%) che tradotto in numeri significherebbe incremento totale di circa 0,9 mil. bbl/g rispetto al livello attuale (di cui 0,6 mil. bbl/g OPEC).

In un mercato che resta fisiologicamente vulnerabile, nuovi rimbalzi dei prezzi non possono comunque escludersi, magari per l’azione della miriade di speculatori che non agiscono in risposta ai fatti ma per creare condizioni a loro favorevoli. La situazione resta quindi critica e che a preoccuparsene siano gli stati produttori e non quelli consumatori che più ne patirebbero le conseguenze dà conto della paradossale situazione che sta attraversando il mondo dell’energia. Schiacciato tra la retorica della decarbonizzazione, che non sta facendo alcun passo in avanti, e la cruda realtà dei fatti che vede il petrolio recuperare una assoluta centralità nello scenario energetico, economico, politico internazionale.

Con prezzi del greggio a 80 doll/bbl, l’extra-costo per i consumatori sarebbe superiore a 500 miliardi di dollari. I margini di manovra per contrastare ulteriori tagli d‘offerta (a quanto ammonteranno quelli dell’Iran?) si sono andati tuttavia progressivamente riducendo a causa del drastico calo degli investimenti. La conseguenza è che dal 2013 al 2018 la flessibilità data dalla capacità inutilizzata (spare capacity) si è ridotta di circa un quinto ad appena 3,5 mil. bbl/g, di cui solo 2,0 immediatamente disponibili, pari al 2% della domanda prevista per il 2018. Questo cuscinetto nel 2019 potrebbe ulteriormente ridursi all’1%, con rischi di ammanchi e strappi nei prezzi molto rilevanti.

Che Donald Trump abbia prima sguaiatamente inveito contro l’Opec per il rialzo dei prezzi, imputabile in larga parte proprio alle sue minacce di sanzioni verso l’Iran e quasi che i produttori a stelle e strisce fossero benefiche onlus, per poi twittare soddisfazione per la decisione assunta dall’Opec, dà conto della commedia dell’assurdo che stiamo vivendo.

La questione cruciale, al di là delle dinamiche congiunturali, è che non vi è previsione che tenga. Nel volgere di breve tempo, ogni profezia – su cui si sono costruiti e si continuano a costruire scenari del tutto immaginari – si è capovolta: che la curva dei prezzi del petrolio sarebbe stata “lower for longer”, mentre hanno stabilmente recuperato oltre la metà del terreno perso; che l’Opec aveva perso ogni ruolo, mentre si è riaffermata, forte dell’alleanza con gli altri produttori, king maker del mercato con una sapiente capacità di gestione puntuale del mercato. Non ultimo: che Parigi avrebbe estromesso in men che non si dica il petrolio mentre va registrando aumenti di produzione superiori a quelli delle mitiche nuove rinnovabili che dovrebbero spodestarlo. Quel che potrà avvenire, ai tassi di sostituzione d’oggi, non prima di un secolo.

Il fatto è che la ‘nave energia’ sta navigando a vista sotto una fitta nebbia che non consente di vedere se e dove andrà a riparare o a infrangersi miseramente.


2 Commenti
SteVe 

Avete già affrontato il tema su Energia tante volte, sempre affascinante. Finché negli US ci sarà capacità per avviare o riattivare oil rigs in tempi relativamente brevi e per rispondere al recupero della domanda è plausibile aspettarsi una volatilità di prezzo inferiore a quella vista nel passato. Io penso che ci troviamo in questa fase, in un corridoio di prezzo di medio termine che magari oscillerà tra i 40 e gli 80 $/bbl. E la minore volatilità dovrebbe favorire scelte di investimento opportune e ‘solide’. Che ne dite?

    alberto clò 

    A ben vedere la volatilità dei prezzi del greggio nell’anno in corso – nonostante le innumerevoli ragioni di incertezza e l’azione destabilizzante della finanza – è stata molto contenuta: variando in un range di 60-70 doll/bbl da inizio anno ai primi di aprile e di 70-80 doll/bbl da aprile ad oggi. Un range 40-80 sarebbe molto più ampio e tale disincentivare gli investimenti. Investimenti che restano molto bassi, rispetto ai livelli pre-controshock del 2014 e insufficienti a rimpiazzare la produzione corrente (prossima ai 100 mil. bbl/g), a sopperire al declino naturale dei giacimenti, a soddisfare la crescita della domanda nei prossimi due decenni. Per obbedire ad un severo rigore finanziario (capex non superiori ai cash flows al netto dei dividendi) e a fronte dei rischi delle politiche climatiche, le imprese ‘volano basso’ e questo espone al rischio di un mismatch domanda/offerta molto consistente qualora la auspicata ‘transizione energetica’ non proceda nei tempi e modi auspicati. Le tendenze in atto (aumenti consumi energia, resilienza delle fonti fossili (27,4 a 1 rispetto alle nuove rinnovabili, aumento emissioni) non confortano in tal senso.


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