11 Giugno 2018

Una soluzione win-win nella lotta ai cambiamenti climatici

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L’incontro del Santo Padre con i vertici delle Big Oil, tra cui l’Eni, è un fatto di grande rilevanza non solo mediatica. Perché, se da un lato rimarca l’interesse prioritario della Santa Sede per la salvaguardia del Pianeta “a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei” come scritto nelle prime righe dell’Enciclica “Laudato Sì”, dall’altro ha visto l’impegno delle grandi corporazioni energetiche ad adoperarsi in tal senso, forti delle grandi risorse finanziarie di cui dispongono, del controllo delle tecnologie oggi dominanti e della loro sempre maggiore presenza in quelle nuove.

Delle strategie delle oil companies verso il nuovo che avanza e che rischia di travolgerle si è trattato in altro post. Vogliamo tornarci, partendo dalla pressione che muove, oltre che dall’opinione pubblica e dai governi, dagli investitori e azionisti delle stesse oil companies di “diversificare” la loro attività verso le energie rinnovabili, solare ed eolico, che stanno crescendo in modo esponenziale. Il tentativo fu già fatto una decina di anni fa dalla BP (che per breve tempo divenne Beyond Petroleum) ma senza successo, così come le operazioni effettuate negli scorsi anni che non hanno creato valore ma costato perdite.
Troppo diversi i business oil&gas da quelli delle rinnovabili, i modelli organizzativi, le professionalità necessarie, la dimensione degli interventi. Alcune compagnie, specie europee, si stanno comunque muovendo in questa direzione (tra cui: Total, Eni, BP, Shell, Statoil) anche se gli investimenti nelle rinnovabili restano marginali sul volume complessivo dei loro investimenti nel core business.

A ben vedere, vi è tuttavia una strategia che potrebbe risultare globalmente vincente ed è che le compagnie petrolifere realizzino nei paesi produttori in cui già operano o intenderebbero operare investimenti su grande scala per la realizzazione di impianti di generazione distribuita ma anche centralizzata da fonti rinnovabili. Investimenti che recenti ricerche dimostrano essere altamente competitivi grazie all’elevato irraggiamento solare e che consentirebbero non solo e non tanto di assicurare l’accesso all’energia alle popolazioni per lo più rurali che non ne dispongono, ma anche di “liberare” gas e petrolio da destinare all’esportazione anziché al consumo interno.

Algeria, Egitto, Oman, Trinidad, Indonesia, Emirati Arabi Uniti producono, ad esempio, circa 330 miliardi di metri cubi (mc) di gas metano, ma ne esportano solo 65 perché i restanti 265 miliardi sono destinati alla domanda interna a prezzi per lo più politici. Per le compagnie vi sarebbe il vantaggio di migliorare i propri ricavi e rendimenti perché i prezzi all’export sono ampiamente superiori, accrescendo per giunta l’utilizzo, oggi basso, delle infrastrutture di trasporto, così riducendo i costi. Anche per i paesi produttori il vantaggio sarebbe duplice: da un lato, aumentare anch’essi la rendita mineraria e, dall’altro, ancor prima, di accrescere l’accesso all’energia delle popolazioni.

Per tutti varrebbe il vantaggio di abbattere le emissioni in quei paesi. Una soluzione win-win che avvicinerebbe ancor più gli interessi dei paesi produttori a quelli delle compagnie petrolifere e che, soprattutto, contribuirebbe a dare supporto agli obiettivi di Parigi in modo efficace ed efficiente.


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