Sarà interessante vedere nei prossimi mesi se la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina a colpi di dazi su centinaia di beni e servizi tracimerà anche nell’energia, dopo la minaccia di Pechino di colpire anche le importazioni di petrolio e metano dagli Stati Uniti. Se accadesse, vi sarebbero impatti importanti sul mercato energetico internazionale sia nel breve che nel lungo termine. Per più ragioni.
Primo: perché da alcuni anni l’energia è diventata un’importante voce nell’interscambio tra i due paesi (pari in totale ad oltre 700 miliardi di dollari). Nel petrolio, Pechino è divenuto il primo mercato dell’export americano con circa 0,6 mil. bbl/g (greggio e derivati). Nel metano le quantità sono inferiori ma con prospettive di grande rilevanza per un’America divenuta nel 2017 dopo sessant’anni esportatore netto. Nel 2017 la sua capacità di liquefazione ha raggiunto 20 miliardi metri cubi (mld mc), di cui circa 3 destinati ai porti cinesi, ed è prevista quintuplicare nel 2019 a circa 100 mld mc con destinazione per lo più verso il mercato asiatico.
Seconda ragione: perché la firma di un Memorandum of Understanding (MOU) in occasione della visita a Pechino nello scorso novembre di Donald Trump aveva dischiuso rapporti bilaterali destinati ad avere grande rilevanza nel futuro energetico dei due paesi accomunati da esigenze complementari. Da un lato, quella di Washington di accrescere gli investimenti interni per conquistare una leadership nei mercati del petrolio e del metano; dall’altro, l’esigenza di Pechino di sostituire per quanto possibile l’ancora dominante carbone nella generazione elettrica col ricorso alle rinnovabili ma soprattutto al metano di importazione, previsto crescere al 2030 a 400 mld mc su un consumo di 650 mld mc: 2,7 volte quello del 2017.
Reciproche esigenze formalizzate nel MOU che prevedeva un insieme di accordi tra cui due in particolare: tra l’impresa pubblica China Energy Investment Corp. e lo Stato della West Virginia per un investimento nell’arco di due decenni di 83,7 miliardi dollari (shale gas, elettricità, chimica) e tra Sinopec e Alaska Gasline Development Corp. con un investimento di 43 miliardi dollari per veicolare il GNL via pipeline dal Nord al Sud dell’Alaska. Accordi che avrebbero dovuto garantire alla Cina attraverso partnership industriali una solida sicurezza energetica – da sempre ossessione dei suoi governi – nella prospettiva di dover accrescere la dipendenza dall’estero, oggi al 65% per il petrolio greggio e 39% nel metano.
Al di là del fatto che questi accordi non sono stati ancora perfezionati, resta da vedere se la politica avrà la meglio sugli interessi economici ovvero se questi ultimi prevarranno in nome di quell’energy realism che ha attraversato la storia dell’’energia (si pensi agli accordi tra Europa e URSS negli anni della guerra fredda).
Possibilità quest’ultima verosimile perché non sarà affatto facile per l’America trovare alternative altrettanto rilevanti nei volumi commerciali e negli impegni finanziari, mentre la Cina potrà rafforzare i suoi rapporti via pipe o GNL con Turkmenistan, Russia, Australia e Africa (la compagnia cinese CNPC col 29% circa è partner di Eni nel grande progetto Coral South in Mozambico, di cui nel 2017 è stato avviata la piattaforma galleggiante di liquefazione del metano).
Venendo all’oggi, la Cina non avrà difficoltà a sostituire il petrolio americano con acquisti magari dall’Iran, così alleggerendo – a dispetto di Trump – l’impatto delle sanzioni decretate da Washington dopo l’uscita dall’accordo sul nucleare, con un calo stimato nelle esportazioni iraniane di 0,6-0,9 mil. bbl/g. Per quanto riguarda il GNL non vi saranno difficoltà a dirottarlo verso il mercato asiatico o europeo in concorrenza con le importazioni via pipeline dalla Russia.
La partita in conclusione – se prevarranno le ragioni della politica – si gioca più sul lungo che sul breve termine: con un bilancio netto che potrebbe giocare a sfavore delle imprese americane che avevano trovato investitori cinesi disposti a mettere sul piatto molte decine di miliardi e a fornire sbocchi di mercato stabili, crescenti, remunerativi nelle raffinerie (per il petrolio) e nelle centrali elettriche (per il metano). Se così fosse, Trump si sarebbe tirata la scure sui piedi.