A distanza di pochi mesi sono state pubblicate due ricerche in tema di mutamenti climatici che pur partendo da diversa impostazione – uno di modellistica climatica, l’altro di analisi energetica – pervengono a una simile conclusione: contenere il riscaldamento terrestre entro la soglia di 1,5 °C è obiettivo perseguibile.
Al di là del merito di questi studi, in parte fuori dalla portata di chi scrive, tre sono le riflessioni che possono derivarsene. Primo: l’obiettivo dell’1,5 °C, ritenuto da sempre come impossibile, sembra oggi non essere più tale. Le cose evidentemente vanno meno peggio di quel che si temeva, nonostante la curva delle emissioni abbia ripreso a crescere. Da cosa possa derivare questo minor pessimismo non è dato comprendere se non dall’erroneità dei modelli probabilistici su cui si è basata l’opinione di consenso espressa dall’IPCC.
L’incertezza che attraversa la conoscenza e la ricerca scientifica in tema di cambiamenti climatici non consente di chiedere alla scienza univocamente intesa obiettivi ultimi che possano dirsi certi e fissi, perché i modelli probabilistici di cui si avvale non sono in grado di contenere sino a cinque milioni di parametri sulla superficie della Terra e sull’atmosfera né tantomeno di incorporare l’insieme delle interazioni tra Terra, mare, atmosfera, vegetazione.
Da ciò deriva l’impossibilità di fornire singole risposte, ovviando con una gamma di possibilità sui limiti del surriscaldamento, sui livelli dello stock di emissioni coerenti con tali limiti, sui tagli delle emissioni compatibili con gli uni o gli altri. Valutazioni che possono differire da esperto a esperto e che sono mutabili nel tempo perché, secondo il climatologo Mike Hulme:
“Mano a mano che la scienza procede nelle sue ricerche l’unica certezza è che muteranno le sue affermazioni probabilistiche. Più sappiamo, più sappiamo quante cose non conosciamo”.
Seconda riflessione: per conseguire gli obiettivi di Parigi è necessario, secondo lo studio apparso su “Nature Energy”, agire più sul versante ‘demand side’ che su quello della ‘supply side’, come si continua invece a sostenere. È conseguibile una riduzione al 2050 del 40% della domanda finale di energia – a parità di benessere – e tale da indurre modificazioni strutturali nei settori intermedi e upstream dei sistemi energetici in grado di contenere il surriscaldamento entro la soglia di 1,5 °C. “Senza il ricorso – conclude – a controverse e incerte tecnologie ‘negative emission’” e, aggiungiamo noi, a costi di gran lunga inferiori a quelli che si sosterrebbero agendo prevalentemente sul versante dell’offerta.
Terza conclusione: dibattere sulla possibilità o meno di arrestare il surriscaldamento entro le soglie dei 2 °C o 1,5 °C non ha solo o tanto implicazioni su quel che ci attende, ma condiziona soprattutto il gioco degli interessi in campo, tra chi se ne avvantaggerà e chi perderà, così come le politiche pubbliche. Sarà molto interessante, infine, vedere se e come l’IPCC recepirà nel suo prossimo rapporto questi rassicuranti elementi di novità, un po’ ammainando la bandiera del catastrofismo. Magari lo farà non attribuendone la ragione all’erroneità dei modelli probabilistici, ma, per non perdere la faccia, all’efficacia delle politiche climatiche adottate dagli Stati. Per la verità quasi del tutto assenti, specie dopo il dicembre di Parigi.
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