21 Agosto 2018

#Kyoto-Parigi. Qual è la strada più sicura?

LinkedInTwitterFacebookEmailPrint

A prima vista i risultati dell’applicazione del Protocollo di Kyoto appaiono incoraggianti: nel periodo 2008-2012, le emissioni di anidride carbonica dei 38 paesi dell’Annesso B dell’Accordo sono calate in media del 4,4% rispetto al 1990, un valore non molto distante dalle previsioni (5,3%). Tuttavia, le emissioni di questo gruppo di paesi si erano complessivamente stabilizzate già negli anni 1980-1990 e un nuovo calo significativo appare solo dopo il 2008 con la crisi economica e finanziaria.

Nel resto del mondo, la crescita delle emissioni continua imperterrita e mostra solo una decelerazione appena percettibile dopo il 2008, dovuta essenzialmente al rallentamento della crescita economica. Ma il fatto più sconcertante è che lo stesso calo delle emissioni del gruppo dell’Annesso B è dovuto per la maggior parte alla recessione delle economie russa e ucraina (–34%) e all’andamento dell’Unione Europea che, assieme a Svizzera e Islanda, hanno ridotto le emissioni dell’11%.

Tra le emissioni registrate nel 1990 e il valore medio relativo al periodo 2008-2012, il Giappone ha aumentato le proprie emissioni dell’8%, gli Stati Uniti dell’11%, Canada, Nuova Zelanda e Australia rispettivamente del 24%, 39% e 48%. La Norvegia addirittura del 69%.

L’accordo Di Parigi

Alla COP 21 di Parigi del 2015, l’Accordo fa comunque un passo avanti non di poco conto, essendo stato ratificato nei tempi previsti da ben 173 paesi su 197 partecipanti alla Conferenza. Il segreto del successo sta nella formula dei contributi all’abbattimento delle emissioni decisi autonomamente dai paesi aderenti secondo le proprie possibilità e obiettivi.

Il rispetto dei piani di abbattimento così decisi viene verificato con periodicità prestabilita mediante comunicazioni al Segretariato. Le cosiddette «intenzioni» di riduzione delle emissioni inviate dagli Stati all’UNFCCC prima della COP 21 – Intended Nationally Determined Contributions (INDC) – risultano alquanto modeste rispetto agli obiettivi. In proposito anche la Conferenza rileva con disappunto che «per mantenere l’incremento della temperatura globale media nel limite massimo di 2 °C sopra i livelli preindustriali saranno necessari sforzi molto maggiori» e che esistono «esigenze di adattamento dei paesi in via di sviluppo», un riferimento velato alle necessità di ingenti finanziamenti per poter raggiungere i limiti previsti. Ad esempio, nel suo Nationally Determined Contributions (NDC), inviato poco prima della COP 21, l’India fa sapere che per tagliare le emissioni ai livelli autonomamente previsti al 2030 necessita di almeno 2,5 mila miliardi di doll (si direbbe una presa in giro).

Ciononostante, la COP 21 invita l’IPCC a formulare entro il 2018 degli scenari di riduzione delle emissioni per mantenere l’aumento della temperatura entro un limite massimo ancora più stringente di 1,5 °C, come se bastasse l’enunciazione di un paio di nuovi scenari per risolvere miracolosamente il problema.

Una miopia incurabile?

Se ci fosse una soluzione, si troverebbe (o forse meglio, avrebbe potuto trovarsi) nello sviluppo della tecnologia e della ricerca tecnologica. Ad ogni modo, sia il Protocollo di Kyoto sia gli aggiornamenti di Doha e Parigi e tutte le varie comunicazioni delle precedenti e successive COP contengono solo generiche dichiarazioni di buoni propositi per la politica della ricerca scientifica, per lo sviluppo tecnologico e per il trasferimento di tecnologie ai paesi in via di sviluppo, principali responsabili del futuro aumento delle emissioni.

Viene da pensare che se vi fosse stata una vera preoccupazione per lo stato dell’ambiente, i governi avrebbero dedicato maggiore impegno alla R&S energetica, come hanno fatto dopo lo shock delle crisi energetiche del 1973-1974 e 1979-1980, e non dissipato un’enormità di risorse in attività che, alla luce dei fatti, stanno apparentemente mancando l’obiettivo. L’esborso complessivo negli ultimi tre decenni per far funzionare i meccanismi di gestione internazionale delle politiche ambientali può stimarsi intorno ai 7 mld. euro, pari a circa il 5% della spesa in R&S pubblica dei paesi IEA dal 1974 ad oggi.

Continua da qui

Il post è un estratto dell’articolo L’irreale declino della ricerca e sviluppo nel settore energetico scritto da Oliviero Bernardini e pubblicato sul numero 2.18 di Energia

Oliviero Bernardini è esperto di mercati energetici e membro del Comitato Scientifico di Energia


0 Commenti

Nessun commento presente.


Login