Da ferragosto a fine mese i prezzi del greggio Brent – punto di riferimento del Medio Oriente e del Nord Africa – sono aumentati di 10 dollari/barile da 70,76 a 77,77 (+10%). Rispetto a un anno fa l’aumento è di circa 25 doll/bbl, pari al 47%. In tensione anche i prezzi del gas sui diversi hub europei. In quello italiano, Punto di Scambio Virtuale (PSV), in quindici giorni sono aumentati del 13,8%.
Ce ne accorgeremo con le prossime bollette. Mai, almeno negli ultimi quattro anni, agosto si era dimostrato caldo anche sul versante dei prezzi. Quali le ragioni di questa anomalia? Diverse (calo superiore al previsto delle scorte americane, incendio di una raffineria inglese, aumento poi calo della produzione saudita) ma soprattutto una: il drastico ridursi delle esportazioni iraniane imposto dalle rinnovate sanzioni americane dopo la denuncia dell’accordo nucleare del 2016.
Le sanzioni scatteranno a novembre ma già nella prima metà di agosto sono calate di un terzo da 2,3 a 1,7 mil. bbl/g. Nel dover scegliere tra Stati Uniti e Iran la più parte degli importatori se la son date a gambe da Teheran, compresi quelli europei, nonostante i gentili inviti a non farlo della Signora Federica Mogherini.
L’unico paese a tenere è la Cina. Il paradosso di tutto questo è che le sanzioni – come per lo più accade- si stanno ritorcendo su chi le ha volute: l’America di Donald Trump. Per diverse ragioni: (a) l’aumento dei prezzi interni dei prodotti petroliferi, ad iniziare dalla benzina (l’autosufficienza non isola dai mercati) che è la bestia nera degli automobilisti americani chiamati alle urne nelle elezioni di medio termine; (b) il calo delle esportazioni di petrolio dimezzate in pochi mesi anche a seguito della guerra commerciale con la Cina, loro primo mercato di sbocco, col venir meno dell’illusione che delle minori esportazioni iraniane potessero beneficiare quelle americane (di tutt’altra qualità); (c) il beneficio di cui ha goduto invece, altro scorno per Trump, soprattutto la Russia.
L’impatto dei maggiori corsi del petrolio non potrà comunque non pesare sulla crescita economica, specie nelle aree che restano più dipendenti dal binomio oil&gas, come l’Unione Europea dove queste due fonti assicurano il 62% di tutti i consumi energetici e pesano per il 25% delle importazioni europee di tutti i beni e servizi.
Nonostante il calo della domanda di petrolio nello scorso decennio, ma in ripresa nell’ultimo triennio, l’Unione Europea (fonte BP, dati 2017) resta pur sempre la seconda area consumatrice del mondo, dietro gli Stati Uniti e davanti alla Cina. L’aumento dei corsi del petrolio – comparabile ad una tassa estera – comporterà per l’Europa una perdita secca per i consumatori-famiglie considerando l’attuale basso tasso di indicizzazione dei salari all’inflazione, diversamente da quel che accadde con gli shock degli anni 1970-1980.
E’ pur vero che le elevate imposte sul consumo di prodotti petroliferi in Europa – con un prezzo medio equivalente a 250 doll/bbl – attenuano l’impatto dei recenti aumenti, che non è comunque indolore. A luglio l’inflazione (su base annua) è balzata un po’ ovunque a livelli compresi tra l’1,9% dell’Italia e il 2,6% della Francia. Tutti proiettati al dopo-petrolio – che più sembra avvicinarsi più si allontana come l’orizzonte – non ci si è resi conto di come sia tornato al centro della scena economica e geopolitica mondiale. Né più né meno come da un secolo in qua.
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