26 Settembre 2018

Bye bye, London

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Che ne sarà della Gran Bretagna dell’energia dopo la Brexit decisa nel referendum del 2016 e prevista ufficialmente per il 29 marzo 2019? Risposta molto complicata dopo la rottura dei negoziati e l’azzardata opinione della premier Theresa May che “nessun accordo è meglio di un cattivo accordo”.

Posizione che, a conti fatti, le si ritorcerà contro, nell’energia come negli altri settori. Col declino della produzione domestica di petrolio e metano (in entrambi i casi circa -65% dal picco del 2000), Londra è infatti divenuta in misura crescente importatrice netta di energia (35,8% nel 2017). Specie dall’Europa. Quel che non le consente più quella sicumera verso l’Unione Europea, che la rendeva, forte della sua autosufficienza, ostile su ogni dossier si discutesse al Consiglio Europeo. Come ho avuto personalmente modo di constatare nel 1996, quando Londra pretendeva di allineare la prima Direttiva europea sulla liberalizzazione elettrica alla sua politica iper-liberista di allora. Una politica opposta al neo-dirigismo di oggi, spesso isolazionista, generalmente indifferente, sostanzialmente mai europea.

La sua uscita dall’Unione non complica, ma semmai semplifica, la già tribolata vita dell’energia europea, anche se lascia aperti diversi interrogativi a partire dagli impegni sottoscritti unitariamente nell’Accordo di Parigi dall’Unione Europea. Oggi Londra importa oltre la metà dei suoi consumi di gas, utilizzato dall’80% delle famiglie per riscaldamento e viene destinato per il 40% alla generazione elettrica. Due-terzi del gas importato viene trasportato attraverso gasdotti da Olanda (Balgzand-Bacton Line da 19,5 mld. mc) e Belgio (Interconnector UK con una linea in entrata da 27 mld. mc e una in uscita da 20 mld.), che servono anche a soddisfare la maggior parte dei fabbisogni dell’Irlanda. Importazioni destinate a crescere per l’ulteriore calo della produzione interna, con le fonti fossili ancora dominanti (80%) sull’insieme dei consumi. Le importazioni di elettricità risultano ancora modeste (circa 6% dei consumi) a causa delle limitate connessioni col Continente, ma erano previste raddoppiare per la convenienza dei prezzi all’import e la necessità di riequilibrare un sistema elettrico in grande affanno.

Sostituire le importazione di gas da altri paesi sarà molto difficile, impossibile per l’elettricità. Il mercato energetico britannico è sempre più integrato con quello dei suoi vicini. Uscendo dall’Europa, ma dipendendovi sempre più, Londra perderà ogni possibilità di influenzare le politiche energetiche e climatiche di Bruxelles. Specie riguardo la regolazione dei flussi di metano nei gasdotti. I negoziati, in base all’art. 50 dell’Accordo di Lisbona, avrebbero potuto portare a diversi modelli di partnership che, come con la Norvegia, avrebbero consentito la permanenza di Londra nell’Area Economica Europea. Il loro fallimento le complicherà di molto la vita. Aumenterà in particolare l’incertezza con un impatto negativo sugli investimenti. Imprese e banche sono restie ad imbarcarsi in rischiosi investimenti nell’intera supply chain del gas, schiacciate tra l’incertezza dei rapporti con l’Europa e quella della politica climatica del governo, che dovrebbe ritorcersi sulla domanda di metano (il carbone è ormai azzerato). Morale: la Gran Bretagna dell’energia rischia grosso sul piano della sicurezza e della continuità degli approvvigionamenti.

Il soccorso europeo avvenuto nella primavera scorsa quando si è trovata a corto di metano potrebbe non ripetersi, come evidenzia un recente rapporto dell’University of Warwich’s School of Business. Secondo il responsabile, Professore Micheal Shaw, “While Brexit is a complicating factor, responsibility for strategic leadership rests with the UK Government, and we urge [it] to provide a clear roadmap for gas in the low carbon transition and to draw up a proper long-term gas security strategy”.

La conclusione è che la Brexit aggraverà di molto le già notevoli criticità che attraversano il sistema energetico britannico mettendo a rischio la continuità di forniture a famiglie e imprese.

Orgogliosamente non europei, ma nondimeno più poveri.


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