8 Ottobre 2018

Carbon leakage: l’UE, il clima e il gioco delle tre carte

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Nello scorso decennio, l’Unione Europa ha ridotto le emissioni di anidride carbonica del 16%. Paladina è stata la Gran Bretagna col 30%. Per la maggior parte di queste riduzioni non è tuttavia il caso di compiacersene granché. Perché queste emissioni sono calcolate al momento della produzione dei beni; sono del tutto nominali e non reali qualora si conteggiasse, come sarebbe corretto fare, l’anidride carbonica incorporata nei beni che le imprese hanno delocalizzato altrove, per poi importarli e consumarli all’interno.

L’Europa, in sostanza, in attuazione del Protocollo di Kyoto ha ridotto a caro prezzo – 60 miliardi euro l’anno dal 2008 – le sue emissioni in gran parte esportandole in paesi con limiti climatici meno stringenti e molto meno efficienti sotto il profilo ambientale. La Cina, per fare un esempio, per produrre una tonnellata di acciaio emette il 23% in più di CO2 rispetto a un impianto siderurgico europeo, perché produce l’elettricità soprattutto col carbone. Si tratta del cosiddetto fenomeno di carbon leakage definito dalla Commissione come “Trasferimento delle emissioni di CO2 che può verificarsi se, per ragioni di costi dovuti alle politiche climatiche, le imprese intendono trasferire la produzione in paesi in cui i limiti alle emissioni sono meno rigorosi. Ciò potrebbe portare ad un aumento delle loro emissioni totali”.

Commissione e Stati membri erano in sostanza perfettamente consapevoli del fatto che il Protocollo avrebbe aumentato e non diminuito le emissioni globali. Se esse, in sostanza, fossero state conteggiate a livello di consumo anziché di produzione, il segno della loro variazione sarebbe stato positivo e non negativo. Come ha dimostrato un recente studio sul carbon trade relativo a ben 15.000 prodotti che stima che un quarto di tutte le emissioni globali sia frutto di questo processo di ‘emission outsourcing’. Processo che ha coinvolto soprattutto la Cina ove si calcola che il 13% di tutte le sue emissioni nel 2015 – pari in termini assoluti a 1,2 miliardi tonnellate (4 volte quelle italiane) – sia dovuto a lavorazioni ‘conto terzi’. Ricalcolando le emissioni al momento del consumo, si vedrebbe così che la virtuosa Gran Bretagna non le ha ridotte, come sostiene, del 30%, ma le ha leggermente aumentate.

Fonte: New York Times

In altre parole, ha causato un aumento nelle emissioni globali mascherato da una riduzione di quelle prodotte al suo interno. Due le conclusioni. Primo: che l’intera costruzione delle politiche climatiche palesa contraddizioni di cui sarebbe necessario aver contezza nell’allocazione delle responsabilità delle singole nazioni. Gli Intended Nationally Determined Contributions (INDC) presentati a Parigi dalla quasi totalità degli Stati che hanno sottoscritto l’Accordo potrebbero sostenere di voler ridurre le emissioni interne magari esportandole altrove. Secondo, l’‘emission outsourcing’ evidenzia una volta di più l’ipocrisia dei paesi ricchi che non solo si vantano dei falsi risultati conseguiti, ma addirittura rimproverano i paesi emergenti di non adoperarsi per ridurre le loro emissioni, quando magari sono loro ad averle causate.