10 Ottobre 2018

Clima vs politica

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Global Warming of 1.5 °C”, lo Special Report appena reso pubblico dall’IPCC, ribadisce che il pieno rispetto dell’Accordo di Parigi non consentirebbe di contenere entro 1,5 °C l’incremento della temperatura globale. Nel 2030 le emissioni salirebbero infatti a 52–58 GtCO2eq, mentre per rispettare il limite di 1,5 °C dovrebbero iniziare a scendere prima della fine del prossimo decennio. Poiché in diverse aree del pianeta si riscontrano riscaldamenti superiori alla media, addirittura tra due e tre volte nella regione artica (anche il Mediterraneo rientra in questa categoria), attestarsi su 1,5 gradi vi eviterebbe effetti molto più disastrosi.

Paradossalmente, questo monito esce in coincidenza con la quasi certa elezione di Bolsonaro a presidente del Brasile, nel cui programma l’approccio ai temi ambientali scavalca a destra lo stesso Trump, proponendo l’abolizione dei vincoli che già oggi proteggono a malapena la foresta amazzonica.

Mettiamo nel conto le previsioni sull’esito delle prossime elezioni europee. Anche se tra i partiti sovranisti-populisti in lizza esistono differenze nei confronti delle politiche climatiche, la priorità data agli interessi nazionali è comunque destinata collidere con gli obiettivi di mitigazione dell’effetto serra, per loro natura globali, che richiedono pertanto azioni condivise tra i diversi stati.

Stati Uniti e Unione Europea sono responsabili del 37% delle emissioni di gas climalteranti. Il Brasile di poco più dell’1%, ma, come ha sottolineato Alberto Clô su questo blog, “dopo le fonti fossili, la deforestazione è la principale causa delle emissioni antropogeniche da cui originano i cambiamenti climatici” e, nel caso dell’Amazzonia, metterebbe a repentaglio anche il più prezioso patrimonio di diversità bioclimatica. Senza la loro collaborazione non è pensabile di contenere la temperatura entro 1,5 gradi.

I voti di una parte consistente degli elettori sono viceversa determinati da altre preoccupazioni, mentre, di nuovo paradossalmente, i rischi messi in evidenza dal rapporto dell’IPCC trovano maggiore ascolto presso una parte del mondo della finanza e dell’industria, dove sono in aumento sia effettivi cambi di orientamento, sia più prosaiche iniziative di ‘greenwashing’.

Agli occhi di chi ha votato Trump e Bolsonaro, e voterà i partiti europei sovranisti-populisti, gli scienziati dell’IPCC, i media che ne divulgano i risultati, i top manager di istituzioni finanziarie e di imprese ‘going green’ sono tutti membri dell’élite che considerano responsabile del loro stato sociale: non solo povertà e disoccupazione, pesa altrettanto la diminuzione del reddito della classe media.

Agli occhi di chi ha votato Trump e Bolsonaro, e voterà i partiti europei sovranisti-populisti, gli scienziati dell’IPCC, i media che ne divulgano i risultati, i top manager di istituzioni finanziarie e di imprese ‘going green’ sono tutti membri dell’élite che considerano responsabile del loro stato sociale: non solo povertà e disoccupazione, pesa altrettanto la diminuzione del reddito della classe media.

Anche se la loro reazione è di pancia e non di testa, contiene però un nocciolo duro di razionalità, per cui il paradosso è meno paradossale di quanto sembri e nei confronti di coloro che, giustamente, criticano la deriva politico-sociale in corso, vale il detto evangelico “chi è senza peccato scagli la prima pietra”.