Fermare la deforestazione in atto e ripristinare le foreste danneggiate può rappresentare “fino al 30% della soluzione climatica”. Lo sostengono in un comunicato congiunto i capi dei dipartimenti ambiente, agricoltura e sviluppo delle Nazioni Unite all’indomani del nuovo allarme lanciato dall’IPCC.
Il dramma della deforestazione prosegue infatti indisturbato nonostante i proclami post-Parigi, per la continua espansione dell’agricoltura, lo sviluppo delle infrastrutture, l’estrazione del legno, l’impiego delle biomasse per alleviare la povertà energetica. Continuando a decurtare le foreste tropicali a questo ritmo, non riusciremo a limitare l’aumento delle temperature a 1,5°C. Non solo, le temperature globali potrebbero innalzarsi di 1,5°C al 2100 anche se da domani azzerassimo le emissioni da fonti fossili.
“forests are a major, requisite front of action in the global fight against catastrophic climate change – thanks to their unparalleled capacity to absorb and store carbon. Stopping deforestation and restoring damaged forests could provide up to 30 percent of the climate solution.” – José Graziano da Silva, direttore generale FAO, Achim Steiner, amministratore UNDP, Erik Solheim, capo UN Environment
Secondo il World Resource Institute, la distruzione di foreste tropicali ha prodotto una media di 4,8 gigatonnellate di CO2 all’anno tra il 2015 e il 2017: ogni anno più di quanto emettono 85 milioni di automobili lungo il loro intero ciclo di vita. E la situazione è in peggioramento, con la media delle emissioni annue dell’ultimo triennio in peggioramento del 63% rispetto agli ultimi 14 anni.
L’istituto di Washington stima che la deforestazione tropicale comporti l’8% delle emissioni globali di CO2, ma che la riforestazione possa rappresentare il 23% della mitigazione necessaria prima del 2030. Meno di quanto dichiarato dai capi dipartimento delle Nazioni Unite ma pur sempre di grande rilievo. Senza contare che i dati risultano ancora incompleti ove si considerino gli effetti “non carbonici” delle foreste sul clima, come l’impatto sulle precipitazioni e la riconversione in campi agricoli. Eppure, gli sforzi non sembrano andare nella giusta direzione.
Stando alla totalità dei Nationally Determined Contributions (NDCs) presentati dagli Stati aderenti all’Accordo di Parigi, le foreste rappresentano appena un quarto delle riduzioni di emissioni pianificate entro il 2030. I finanziamenti devoluti alla riforestazione coprono meno del 3% del totale dedicato agli interventi di mitigazione climatica, anche nei paesi che presentano i più alti tassi di deforestazione.
Un strategia che preveda l’arresto della deforestazione e una contestuale riforestazione sarebbe in grado di dare un contributo concreto al raggiungimento di un traguardo tutt’altro che semplice come limitare l’aumento delle temperature a 1,5°C. Lo sostiene anche l’AD di Shell, Ben van Beurden, che ha di recente dichiarato come per raggiungere gli obiettivi delle Nazioni Unite sia necessario “un altro Brasile in termini di foreste pluviali” in quanto “un po’ più di solare e un po’ più di eolico non sono sufficienti”.
Alla pari degli Stati, anche le multinazionali (energetiche e non), mondo da cui proviene van Beurden, sono chiamate ad abbracciare concretamente questa strategia. Senza nascondersi dietro mistificanti operazioni di green-wash per poi continuare con le proprie attività devastando la foresta boreale per l’estrazione di sabbie bituminose o le foreste pluviali per la coltivazione di olio di palma.
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