Ieri, 1° ottobre 2018, il Brent è balzato del 4% portandosi a quasi 85 doll/bbl. Quel che non accadeva da circa quattro anni, dal 3 novembre 2014, quando tuttavia la tendenza vedeva i prezzi precipitare fino a minimi di 30 doll/bbl. Rispetto a un anno fa l’aumento è del 52%. Il balzo dal petrolio si trasmette al gas metano e a seguire sui prezzi dell’elettricità. Chi sostiene che il petrolio ormai conti poco o nulla, che le variazioni dei suoi prezzi non si traslano su quelli delle altre fonti, che il pallino è ormai nelle mani delle rinnovabili, avrebbe di che riflettere, ma i falsi convincimenti sono difficili da scalfire quando riflettono interessi di parte o scarsa conoscenza delle cose.
Le ragioni dell’aumento sono ben note. Le stesse che abbiamo esposto in un post su questo Blog il 31 agosto scorso. La prima e principale ragione è la riduzione delle esportazioni iraniane che scatterà da inizio novembre con l’avvio delle sanzioni americane che ha spinto la totalità delle imprese occidentali a rinunciare ad ogni rapporto con Teheran per non incorrere nelle reazioni dell’amministrazione americana. La tensione sui mercati è data dal fatto che la minor offerta iraniana va a sommarsi all’aumento della domanda nell’ultimo trimestre dell’anno. Da qui il timore che la residua spare capacity sia in grado di soddisfare l’una e l’altra voce. In altri termini: che vi sia il rischio o meno di un deficit di offerta da qui alla fine dell’anno.
Le diverse valutazioni derivano in buona parte dalla definizione che si dà di spare capacity. Quella canonica la quantifica nella capacità di accrescere la produzione nell’arco di 30 giorni mantenendola per almeno 90 giorni. Secondo l’Arabia Saudita, nella riunione tenutasi in questi giorni ad Algeri del Joint Ministerial Monitoring Committe dell’Opec che periodicamente verifica l’andamento dell’offerta di petrolio globale e dei suoi Stati Membri, la capacità residua disponibile (Opec e non-Opec) ammonterebbe a 2,0 mil.bbl/g. I mercati ne dubitano fortemente, da qui la pressione sui prezzi. Il prestigioso Petroleum Intelligence Weekly, stima che quella dell’Opec sia appena 0,91 mil. bbl/g, concentrata in tre soli paesi: Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi. Un’eventuale non escludibile ulteriore riduzione della produzione in Venezuela (pari ad agosto a 1,25 mil. bbl/g o in Libia, 0,95 mil. bbl/g) difficilmente sarebbe colmabile con altre produzioni.
Di tutto questo l’Europa nulla si cura, convinta che del petrolio non sia proprio il caso di preoccuparsi (nonostante pesi per il 38% dei suoi consumi di energia), tutta presa dalla preoccupazione che nel 2030 – se vi arriveremo vivi (economicamente) – l’asticella della emissioni si riduca e quella delle nuove rinnovabili (9%) aumenti più di quanto programmato.
Dall’altra parte dell’Atlantico il Presidente Donald Trump tra un tweet e l’altro, commentando il rialzo dei prezzi, ne ha lanciato uno davvero incredibile se non esilarante: “The Opec monopoly must get prices down!”. Intimoriti di una sua possibile violenta reazione, nessuno della sua corte si è evidentemente azzardato a dirgli che la colpa è solo sua.
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