5.000.000.000.000 (cinque trilioni), tanti sono i frammenti di plastica e micro-plastica che vagano galleggiando per i mari del Pianeta. Più delle stelle presenti nella Via Lattea e, fra non molto, dei pesci che abitano gli oceani (secondo un rapporto della Ellen MacArthur Foundation).
Un problema ambientale dalle dimensioni sempre più vaste. I dati parlano da soli: il 50% della plastica è utilizzata una sola volta per poi essere gettata; ogni secondo al mondo vengono prodotte circa 20.000 bottiglie di plastica; nel mondo, 500 miliardi di sacchetti usa e getta diventano rifiuti ogni anno; 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono annualmente in mare, molte delle quali si convogliano nel Great Pacific Garbage Patch, l’‘isola della vergogna’ che ospita 1,8 trilioni di frammenti.
Un giorno, forse, queste plastiche verranno sostituite nel nostro uso quotidiano da prodotti biodegradabili, ma prima di allora sarà necessario far fronte al problema rimuovendo dagli oceani le plastiche più o meno grandi già presenti ed evitando che altre vadano ad accumularvisi. Fortunatamente, numerosi gruppi di ricercatori e start-up hanno preso a cuore il problema cercando soluzioni innovative, immediate ed efficaci. Ve ne proponiamo tre.
The Ocean Cleanup, la fondazione olandese no profit del giovanissimo Boyan Slat, ha da poco completato la prima di due barriere artificiali che consentiranno di ripulire il Great Pacific Garbage Patch. Si tratta di un grosso tubo di gomma galleggiante lungo 600 metri corredato di un lembo che scende 3 metri in profondità in grado di convogliare la plastica verso piattaforme che fungono da imbuto, dalle quali è possibile raccogliere i rifiuti. L’impianto è autonomamente alimentato ad energia solare. Una volta completo di tutte le 60 componenti della tecnologia, l’Ocean Array Cleanup sarà in grado, secondo il suo ideatore, di recuperare metà dei rifiuti che compongono l’isola di plastica in soli 5 anni.
Meno spettacolare ma altrettanto rilevante e pratica, è la soluzione individuata da una start-up – anche in questo caso olandese – fondata da tre donne: la Great Bubble Barrier. L’invenzione consente di impedire che frammenti di plastica più o meno grandi raggiungano il mare dalle vie d’acqua terrestri. Si tratta di una semplice pompa applicata sul letto di un fiume o canale ed alimentata ad aria ad elevata pressione in grado di creare una barriera di bolle sufficientemente forte da deviare il corso della plastica ma non abbastanza da infastidire i pesci o il passaggio delle navi. I rifiuti vengono così convogliati, raccolti e riciclati.
Dall’Australia arriva invece l’ultima innovazione che vi presentiamo per liberare gli oceani dalla plastica. Il Seabin Project consiste in cestini della spazzatura ‘marini’ da posizionare all’interno dei porti in modo che possano raccogliere i rifiuti muovendosi in accordo con la marea. Acqua e rifiuti vengono succhiati nel cestino Seabin grazie ad una pompa in grado di muovere 25.000 litri all’ora; i rifiuti vengono quindi intrappolati in un filtro interno al cestino mentre l’acqua viene rilasciata in mare. Stando alle stime dei due surfisti australiani che li hanno inventati, ognuno di questi cestini è in grado di raccogliere in un anno fino a 90.000 sacchetti di plastica, 16.500 bottiglie, 166.500 utensili (posate, piatti, bicchieri, etc.).
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