Non sono un esperto di ecologia e nemmeno di cambiamenti climatici. Cerco però di seguire con cura quanto si dice e si scrive in materia e non nascondo di sentirmi fortemente preoccupato per tutte le informazioni che ogni giorno ricevo. Anche se non tecnicamente specialista ritengo in ogni caso che, riguardo a materie così importanti per tutta l’umanità, sia necessario applicare in ogni decisione il “principio di precauzione” adottato nel Trattato di Amsterdam (1997), che impone azioni di contrasto qualora ricorra anche solo una minaccia di danni “gravi o irreversibili” all’ambiente, anche in assenza di assolute certezze scientifiche.
La guerra per il clima sarà lunga e costosa, abbiamo bisogno di tutta l’energia possibile
Per questo motivo, la Commissione Europea, nel periodo da me presieduto, operò per organizzare la prima grande assise mondiale sul clima che, con inatteso successo, arrivò alla firma del protocollo di Kyoto. Si trattava di un documento coraggioso che cercava di mettere in atto un impegno concreto e corale per la custodia del pianeta. Tale accordo fu ratificato da un ampio numero di paesi ma non poté produrre il mutamento delle politiche ambientali, anche perché mancò la firma di Cina e Stati Uniti, cioè dei due più grandi “inquinatori” del mondo. Seguirono altri infruttuosi tentativi per arrivare ad un accordo veramente globale fino a che si giunse all’Accordo di Parigi del dicembre 2015 (il così detto COP 21). Un accordo sottoscritto da 196 Stati salutato come l’inizio di una nuova epoca, anche perché prevedeva severi obiettivi e misure concrete da tutti sostenute, Cina e Stati Uniti compresi.
Sono passati tre anni da questa “rivoluzione verde” ma di rivoluzione se ne vede ben poca. Le nazioni non hanno dato seguito agli impegni allora solennemente presi. La crisi economica ha fatto temporaneamente diminuire le emissioni che, successivamente, hanno ripreso a crescere. Le convenienze economiche hanno prevalso sugli impegni politici. In effetti, nell’anno in corso, si sta raggiungendo un nuovo massimo storico, per cui, come ha affermato Fatih Birol, direttore dell’Agenzia di Parigi, le possibilità di mantenere il surriscaldamento dentro 1,5°C, come richiesto dagli impegni presi, sono sempre “più deboli ogni anno, ogni mese”.
Siamo al paradosso che il paese che più ha ridotto le proprie emissioni sono gli Stati Uniti, l’unico che ha ritirato la propria adesione dal protocollo di Parigi
Siamo arrivati al paradosso che il paese che più ha ridotto le proprie emissioni sono gli Stati Uniti, cioè l’unico paese che ha ritirato la propria adesione dal protocollo di Parigi. Questo non certo per una direttiva di Trump, che sta fortemente proteggendo i produttori di carbone, ma perché lo sfruttamento dello “shale gas” ha abbassato drasticamente il prezzo del gas, che sta progressivamente sostituendo il carbone nella produzione di elettricità.
Tuttavia, in giro per il mondo, il carbone resta ancora il combustibile più usato non solo dalle centrali elettriche esistenti: dobbiamo prendere atto che ben 1.500 nuove centrali a carbone sono in costruzione o in fase di progettazione in 850 località nel mondo. Abbiamo casi come l’India o il Sud Africa dove il già dominante ruolo del carbone si accrescerà anche in futuro, altri, come il Kenya, dove la politica energetica in grande scala esordirà col carbone e altri, come la Cina, dove la fuga dal carbone è solo parziale e la costruzione di nuove centrali a carbone costituisce una parte dominante anche nella nuova politica energetica.
La maggior parte dei governi del mondo, a dispetto di tutte le dichiarazioni e degli impegni, ritiene perciò di perseguire la politica meno costosa, con concessioni solo minori alla riduzione dell’inquinamento.
A scapito dei roboanti proclami, tutti si dichiarano protettori dell’ambiente e pronti alla battaglia contro i cambiamenti climatici ma tutti, governi e cittadini, non sono in generale disposti a pagarne il prezzo.
Parzialmente diversa è la situazione europea, dove non solo l’Italia ma anche la Gran Bretagna che ha sempre posto il carbone alla base del proprio sviluppo, ha deciso di abbandonare questa risorsa, soprattutto per rivolgersi a fonti rinnovabili. La Germania poi, pur impegnata nelle rinnovabili, ha promosso addirittura la costruzione di una centrale a lignite, ancora più inquinante del carbone. Quanto sia ancora complesso il “cammino di Parigi” emerge dalla constatazione che gli investimenti in energie rinnovabili crollano di colpo quando vengono a diminuire o a cessare gli incentivi pubblici che ne assicurano la convenienza. E come il problema sia delicato può essere ancora una volta testimoniato anche da quanto è avvenuto in Francia in questi giorni, dove la scintilla che ha fatto scoppiare la rivolta popolare dei “gilet gialli” è stato proprio l’aumento (peraltro abbastanza modesto) del prezzo dei carburanti in conseguenza dell’aumento della tassa sul carbonio.
A scapito dei roboanti proclami siamo perciò obbligati a trarre la semplice conclusione che tutti si dichiarano protettori dell’ambiente e pronti alla battaglia contro i cambiamenti climatici ma tutti, governi e cittadini, non sono in generale disposti a pagarne il prezzo.
Abbiamo perciò bisogno non solo di fare maturare la coscienza civica in questo campo ma soprattutto di moltiplicare le risorse in ricerca e investimenti dedicati ad accelerare la transizione energetica. Non illudendoci peraltro che la diffusione dell’auto elettrica possa risolvere il problema perché essa, anche se ha la grande virtù di non inquinarci da vicino, ha bisogno di energia e di materiali rari, con tutte le implicazioni che abbiamo in precedenza elencato. La battaglia per un mondo meno inquinato è quindi appena agli inizi. Cerchiamo di combatterla con tutte le armi che abbiamo o che possiamo inventare, senza tuttavia illuderci che sia una battaglia breve o indolore. Sarà invece una lunga e costosa guerra.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 novembre 2018
Foto: James Wainscoat/Unsplash