Nella seduta di borsa del 13 novembre il prezzo del greggio Brent Dated ha lasciato sul terreno sul giorno prima il 6,6%, portandosi a 65,47 dollari al barile. Quello forward è sceso sotto i 65. La volatilità dei prezzi – con variazioni medie del 20% – è ben visibile dai valori, in dollari al barile, che hanno registrato da inizio anno:
11 gennaio | 70,7 doll./bbl |
13 febbraio | 61,5 (-13%) |
17 maggio | 80,3 (+31%) |
15 agosto | 70,8 (-12%) |
3 ottobre | 86,3 (+22%) |
13 novembre | 65,5 (-24%) |
Certo, di ogni variazione è possibile dare una spiegazione. Per lo più col senno del poi. Più difficile capirne in anticipo la provvisorietà. Quel che non è accaduto quando i prezzi sono balzati a 80 dollari al barile e molti commentatori ne prevedevano una crescita oltre i 100 e, viceversa, quando sono ripiegati a 70 con la profezia di un loro crollo a 20 dollari. In un post del 5 novembre ho ricondotto questi cicli all’alternarsi di preoccupazioni dei mercati sul versante dell’offerta – che le tensioni geopolitiche potessero ridurla creando situazioni di deficit con prezzi al rialzo – e su quello della domanda – che la minor crescita delle economie la riducesse creando situazioni di oversupply con prezzi al ribasso. Questa duplice lettura penso contribuisca anche a spiegare la ricaduta dei prezzi nonostante l’avvio una decina di giorni fa delle sanzioni all’export iraniano.
Che ogni rischio di scarsità sia superato e che i prezzi si mantengano bassi è comunque prematuro dirlo
Due gli argomenti principali. Primo: i mercati avevano già scontato questo evento, attutito comunque nei suoi effetti dall’aumento dell’export iraniano nei mesi precedenti e dalle esenzioni consentite dalla Casa Bianca (per un semestre) a otto paesi (tra cui l’Italia), per ridurre i rischi di scarsità. Segno che nemmeno Trump ne voleva l’azzeramento. Secondo: Russia e Arabia Saudita hanno spinto al massimo la loro produzione per garantire al mercato un pieno equilibrio e dar seguito alla congiunta decisione di fine giugno di ridurre i tagli che erano stati decisi a fine 2016. Lo scopo: raffreddare il surriscaldamento dei prezzi balzati a maggio a 80 dollari al barile. Mosca ha spinto la produzione a ottobre a 11,5 milioni di barili al giorno, nuovo record dell’era post-sovietica (+0,4 sull’ottobre 2017); l’Arabia Saudita ha raggiunto 10,7 milioni di barili al giorno (+0,6); mentre il maggior aumento si è registrato negli Stati Uniti con una produzione di 11,3 (+1,38).
Che ogni rischio di scarsità sia superato e che i prezzi si mantengano bassi è comunque prematuro dirlo. Per una sostanziale ragione: perché l’aumento della produzione, specie di quella saudita, ha ulteriormente ridotto il cuscinetto della spare capacity scesa intorno a 1,3 milioni barili al giorno, poco più dell’1% della domanda mondiale. Se, nonostante le esenzioni, nei prossimi sei mesi spariranno dal mercato altri 1,3 milioni di barili al giorno di export iraniano il conto è presto fatto: si ricreerà una pesante tensione sui mercati con possibili rialzi dei prezzi che, paradossalmente, potrebbe essere contrastata da una depressione della domanda per il rallentamento delle economie (già messa in conto dall’Agenzia di Parigi con un calo delle sue previsioni per il 2019 da +1,45 a +1,36 milioni di barili al giorno).
La barca dei mercati naviga a vista avvolta da una fittissima nebbia ma c’è chi intravvede lo scoglio di un oil shortage contro cui il mercato andrà a infrangersi nel decennio 2020
Morale: la barca dei mercati naviga a vista avvolta da una fittissima nebbia, mentre vi è chi intravvede oltre questa nebbia, negli anni 2020, gli scogli di un oil shortage contro cui il mercato andrà a infrangersi causando una nuova duratura impennata dei prezzi. A prevederlo è Goldman Sachs che in passato ha avuto un ruolo determinante nel ‘guidare il mercato’ spesso non azzeccando le previsioni dei prezzi (ricordiamo i 200 dollari al barile previsti nel maggio 2008 poco prima del loro crollo) ma causando nel mercato il classico self-prophecy effect e, aggiungiamo noi, il self-interest.
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