5 Novembre 2018

Il ‘tiro alla fune’ nel mercato del petrolio

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Nel gioco delle aspettative che vanno condizionando le borse dei greggi benchmark di New York e Londra – West Texas Intermediate e Brent Blend – si contrappongono due ordini di timori: sul versante rispettivamente dell’offerta e della domanda. Da essi originano le forti oscillazioni al rialzo o al ribasso dei prezzi osservate nei mesi scorsi in funzione del prevalere dell’uno o dell’altro.

Sul versante dell’offerta si è rafforzato il timore che il groviglio di tensioni geopolitiche che si andava accumulando – specie le sanzioni americane contro le esportazioni iraniane di petrolio (2,5 mil. bbl/g) che Trump vorrebbe azzerare e che sembra voglia allargare ai condensati associati alla produzione di gas naturale (altri 0,5) mil. bbl/g – potesse ridurne i flussi a fronte di una spare capacity (offerta disponibile entro poche settimane) ridottasi a nemmeno l’1% secondo Energy Intelligence. Sarebbe bastato (e basterebbe) un niente per gettare i mercati nel panico.

La coperta è corta e l’odore di sangue aizza la speculazione. Basterebbe un niente per gettare i mercati nel panico.

La coperta è corta e l’odore di sangue aizza la speculazione. Da qui, il balzo dei prezzi del Brent Dated di oltre un quinto in sei settimane, da metà agosto ai primi di ottobre, da 70 a 86 dollari al barile (+23%), con allarmi che potessero spingersi oltre i 100 dollari al barile. Prospettiva svanita da un’inattesa caduta dei prezzi del dieci per cento in quattro settimane, ai primi di novembre, a circa 73 dollari al barile (-15%).

A causarla, l’emergere di timori sul versante della domanda per le minori aspettative di sua crescita nel 2019, a causa della decelerazione dell’economia mondiale, specie dei paesi emergenti, dei loro elevati debiti, del rafforzamento del dollaro ribaltatosi sul costo delle loro importazioni di petrolio; delle guerre commerciali; dell’impatto negativo dei maggiori prezzi.

Una più contenuta crescita, stimata comunque nel 2019 intorno a +1,4 mil. bbl/g, non lontana da quella dell’ultimo quinquennio a un nuovo record sui 100 mil. bbl/g, attenuerebbe i rischi lato offerta, senza però eliminarne l’estrema vulnerabilità. Come è emerso con la minaccia di Trump all’Arabia Saudita di adottare misure “very severe” qualora fosse dimostrato il coinvolgimento della casa reale nell’uccisione del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Quel che ha spinto il Principe della Corona Mohammed bin Salman a rammentare l’“influential and vital role” di Riad nell’economia mondiale e il Financial Times a ricostruire i giorni dell’ottobre 1973, quando l’embargo mise in ginocchio le economie mondiali. Le cose da allora sono profondamente cambiate, specie per gli Stati Uniti forti del taglio di tre-quarti della dipendenza dalle importazioni nette di petrolio sulla domanda (dal 60% al 15%) e di una produzione cresciuta anche nel 2018 di 2 mil. bbl/g per lo più destinate all’export.

Un taglio delle esportazioni saudite impatterebbe sui prezzi, ma finirebbe per ritorcersi sulla stessa Arabia Saudita

La possibilità di una rottura tra i due tradizionali alleati resta comunque remota, perché la loro interdipendenza si mantiene elevata. Un taglio delle esportazioni saudite impatterebbe sui prezzi, ma finirebbe per ritorcersi sulla stessa Arabia Saudita, che abbisogna degli Stati Uniti per la sua sicurezza militare. Non ultimo: avvantaggerebbe le tecnologie alternative (rinnovabili e risparmio energetico) come insegna la lezione del 1973-1974.

Resta il fatto che il ‘tiro alla fune’ tra aspettative lato offerta e lato domanda non fa che consolidare la pesante incertezza che avvolge l’intero mondo dell’energia, con l’effetto di deprimere ulteriormente gli investimenti dell’intero novero delle industrie energetiche (comprese le rinnovabili, Cina esclusa). Nonostante un cash-flow delle prime otto imprese petrolifere balzato nel 2017 a 30,9 miliardi di dollari (dopo dividendi per 46 miliardi), rispetto ai 3,8 registrati nel 2014, le spese in esplorazione – l’offerta di domani – sono ammontate a 35 miliardi dollari contro i 94 di allora.

Perché, si chiedono azionisti e sempre più i manager, investire se tra venti o trenta anni vi sarà una minor domanda o altre fonti la soddisferanno?

Schiacciate tra i rischi di mercato nel breve e le minacce nel lungo termine delle politiche climatiche, le imprese – non solo le oil majors ma anche le national oil companies dei paesi produttori – stanno tirando i remi in barca. Dietro la pressione anche degli azionisti, timorosi della perdita di valore dei loro investimenti, gli investitori cancellano o posticipano grandi e costosi progetti privilegiando quelli di minor dimensione e in grado di garantire maggiori e più rapidi ritorni.

Accrescere la capacità estrattiva di petrolio di 1 solo milione di barili al giorno costa d’altra parte intorno a 20 miliardi di dollari. Perché, si chiedono azionisti e sempre più i manager, investire se tra venti o trenta anni vi sarà una minor domanda o altre fonti la soddisferanno? Inquietante interrogativo di cui pochi però sembrano preoccuparsi, convinti che sarà la ‘transizione energetica’ a sole e vento a provvedervi. Ma che accadrebbe se questa transizione non si avverasse nei tempi e modi necessari? Sarà allora il mercato, via prezzi, a colmare il gap. E saranno dolori per tutti.


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