Proponiamo un estratto della presentazione di Alberto Clò di Energia 4.18.
In fondo al testo trovate la versione integrale della Presentazione.
Quale futuro, tra economia e geopolitica
Anche quest’anno pubblichiamo le conclusioni del World Energy Outlook 2018. Un’analisi complessa, date le molte variabili che vi interagiscono, che ha portato l’Agenzia a proporre da anni 3 scenari con l’intento non già di «fare previsioni, quanto piuttosto di costruire ed esplorare vari possibili scenari futuri, individuare le leve che ne consentono la realizzazione». Che essi siano «tutti possibili», come scritto, appare affermazione molto azzardata. Per più ragioni:
(a) perché gli Stati non stanno affatto adottando politiche innovative e addizionali, quel che esclude la realizzazione del SDS;
(b) perché il prospettarsi di una fase di stagnazione/recessione delle economie riduce le possibilità di realizzare gli ingentissimi investimenti necessari;
(c) perché, non ultimo, la modifica del mix elettrico – settore su cui si gioca gran parte della decarbonizzazione – non è di alcun conforto per il futuro.
Nel suo articolo, Ennio Macchi dimostra come la generazione termoelettrica alimentata da combustibili fossili abbia subìto, nello scorso decennio, solo una minima contrazione del 2,4%: tra un massimo del 69,7% nel 2012 e un minimo del 67,3% nel 2016, «senza evidenti trend di diminuzione». La supposta «rivoluzione tecnologica» delle nuove rinnovabili – solare ed eolico – ne ha aumentato la quota a livelli comunque marginali, superando per la prima volta il 5% ma in un rapporto 1 a 13 rispetto alle fossili. Da qui la valutazione contro-corrente di Macchi sull’ingiustificato ottimismo di poter ribaltare questo rapporto entro breve.
L’evolvere delle cose dipende poi massimamente da variabili geopolitiche, come evidenziato da Giampiero Massolo, Presidente dell’ISPI, nell’Editoriale sul ruolo che la geopolitica continua a giocare nell’energia. Intesa non già come impatto di shock esogeni sulle dinamiche di mercato, ma come portato di queste ultime negli equilibri di potere tra esportatori e importatori. «Una geopolitica che non è solo crisi ma storia e memoria» e che in questa dimensione ha riacquistato «un ruolo centrale, scorrendo come un fiume carsico in profondità, al disotto e attraverso i mercati».
Altro tema d’ordine politico – affrontato da Bernard O’Connor e Raffaele Calderone – è il futuro energetico della Gran Bretagna alla luce del raggiungimento di un accordo o meno con l’Unione Europea sulla Brexit. Un’uscita che aumenterà comunque i suoi costi dell’energia, specie in termini di sicurezza, tanto più se si considera che il futuro energetico di Londra sarà sempre più dipendente dalle importazioni, non essendo più quell’«isola felice» che le consentiva di trattare con arroganza e indifferenza ogni decisione dell’Unione Europea sull’energia.
Da ultimo, un’analisi di Arturo Varvelli sulla recente conferenza di Palermo sulla Libia che è stata lontana dal comporre gli scontri tra le varie fazioni che spadroneggiano nel Paese, perdurando le situazioni di criticità, e che rimbalza sull’Italia che dalla Libia dipende nei flussi di approvvigionamento di petrolio e metano e che vede in posizione storicamente dominante la presenza di Eni.
Il «nocciolo della questione»
Era inevitabile che prima o poi i nodi della «transizione energetica» venissero al pettine. Come ogni altra rivoluzione, essa avrebbe infatti colpito in modo diseguale le varie componenti della società con vincitori e vinti – tra imprese, industrie, lavoratori, consumatori, contribuenti, territori – e inevitabili tensioni politico-sociali. Le proteste francesi dei «gilet gialli», causate dall’introduzione di una seppur lieve carbon tax sui carburanti, ne sono una dimostrazione.
È dal convincimento che la «transizione» non possa ridursi a fatto meramente tecnico-economico che si è consolidato l’interesse della Rivista verso il rapporto Energia & Società. Vi contribuiscono in questo numero due articoli. Il primo di Samuela Bassi, Maria Carvalho, Baran Doda e Sam Fankhauser della London School of Economics and Political Science ove si evidenzia l’importanza che le politiche climatiche siano credibili e socialmente accettabili: «L’introduzione o il rafforzamento di tasse sul carbonio “ottimali” dal punto di vista economico risulta, tuttavia, difficile a causa dell’opposizione pubblica. Alcune soluzioni alternative hanno mostrato risultati migliori a livello di accettabilità sociale [con] una migliore comunicazione e condivisione delle informazioni prima e dopo la loro introduzione».
Il secondo articolo, a firma di François-Mathieu Poupeau del Centre National de la Recherche Scientifique, verte sulla necessità di coinvolgere maggiormente nella governance energetica le istituzioni locali, perché più prossime alle esigenze e aspettative della collettività. Decidere incuranti degli impatti sociali genera reazioni contrarie, come accadde negli Stati Uniti con l’opposizione bipartisan al Protocollo di Kyoto o in Francia in questi giorni. Anche in questo caso non si è saputo trarre insegnamento dalla storia che indica come, in assenza dell’accettabilità sociale, qualsiasi scelta energetica non abbia futuro.
Le nuove asticelle dell’Unione Europea: ce la faremo?
L’Unione Europea si accinge ad innalzare le tre asticelle che hanno caratterizzato la sua politica energetica per il 2030 a una nuova triade: 40-32-32,5. Basterebbe guardare come vanno le cose per comprendere che non basta alzare le asticelle per dirsi certi di saltarle. Il flop del Protocollo di Kyoto – costato secondo recenti stime 60 miliardi euro all’anno dal 2008 – non ha evidentemente insegnato nulla. Con ben altro approccio vengono affrontate in tre articoli possibilità e condizioni perché il nostro Paese riesca a raggiungere gli obiettivi fissati.
Nel primo, Enzo Di Giulio e Stefania Migliavacca propongono un’analisi quantitativa delle future emissioni di anidride carbonica rispetto allo scenario tendenziale delineato nella Strategia Energetica Nazionale 2017, presa come base di riferimento non essendo dato sapere gli intendimenti programmatici del nuovo governo, a poca distanza dall’invio a Bruxelles del «Piano Energia-Clima». In funzione di diverse ipotesi sull’aumento dell’efficienza energetica e sulla decarbonizzazione del mix energetico, l’articolo propone tre scenari per conseguire il target di riduzione delle emissioni del 40% al 2030, proponendo una valutazione della loro probabilità di realizzazione. Probabilità non elevatissime anche alla luce della ripresa dei consumi di energia (+3% nel primo semestre 2018) e del peggioramento dell’indice della transizione energetica elaborato dall’ENEA.
Simili criticità connotano anche il secondo obiettivo sull’aumento delle rinnovabili al 32%, analizzato da G.B. Zorzoli. Un «target – scrive – molto sfidante, raggiungibile solo se (…) si realizza una serie di drastiche condizioni». Tra tutte, oltre al forte miglioramento dell’efficienza energetica, la necessità tra 2019 e 2030 di incrementare gli investimenti – crollati dopo il ridursi degli incentivi – nelle sole rinnovabili elettriche a un totale di 50 miliardi di euro, più altri 12 di Terna per le reti. La potenza fotovoltaica dovrebbe moltiplicarsi di circa 10 volte rispetto a quella realizzata nel 2017. Via ancor più impervia se si considera che, a detta delle stesse associazioni di settore, nessun incentivo sarà necessario, avendo raggiunto la grid parity. Segno che la generosità passata è valsa a far uscire l’industria dal suo stato di infant industry potendo finalmente camminare sulle proprie gambe.
Se, tuttavia, malauguratamente gli incentivi dovessero riprendere a crescere, essi non potranno che gravare sui consumatori rendendo ancor più insostenibili le bollette elettriche (+11,3% nel 2018) per milioni di famiglie italiane per l’aumento dei profitti delle maggiori imprese e degli oneri di sistema: pensare di attenuarne l’impatto scaricandoli sul calderone della fiscalità generale, come da taluni proposto, è tuttavia ipotesi irrealistica, come peraltro emerge dall’articolo della Professoressa Livia Salvini.
La terza riflessione su possibilità e condizioni per il raggiungimento degli obiettivi nazionali, invece, è contenuta nell’articolo di Giovanni Goldoni relativo alla fallimentare esperienza della regolazione dei certificati bianchi che dovrebbero fornire un importante contributo alla riduzione dei consumi energetici, ovvero all’aumento del «risparmio energetico». Obiettivo anche in tal caso impervio considerando, come scrive, che esso ha «cessato di crescere nel 2010 e da allora il trend è stato tendenzialmente in diminuzione». Segno, da un lato, che il forte (supposto) aumento degli investimenti in efficienza energetica non ha sortito gli effetti desiderati e, dall’altro, che essi non comportano di per sé, guardando al futuro, effettivi miglioramenti.
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