Che dire della COP 24? Che il niente che ne sta uscendo – al di là dei 30.000 partecipanti provenienti da 196 paesi (153 per paese!) – era assolutamente prevedibile. Per più ragioni.
Primo, perché era inimmaginabile che potesse uscirne un qualcosa di significativo per il solo fatto d’aver scelto come sede la seconda città più inquinata d’Europa: la cittadina di Katowice “one of the biggest coal and steel producing towns in Europe”!. Fonte che assicura l’80% dell’elettricità e il 48% dei fabbisogni del Paese e che il Presidente polacco, Andrzej Duda, ha difeso con orgoglio nazionalista dichiarando “coal remains and will remain in Poland”. Orgoglio sublimato dallo stand polacco stracolmo di carbone “con vetrine con gioiellini fatti in carbone sotto lo slogan ‘black to green’”.
Secondo: perché gli Stati stanno tradendo Parigi – “The great inaction” ha scritto l’Economist – come attestano molti recenti rapporti. In particolare quello dell’IPCC che evidenzia la distanza rispetto agli obiettivi di Parigi e quello delle Nazioni Unite che ne quantifica il gap. Aprendo la Conferenza, il Segretario ONU Antonio Guterres ha dichiarato come “i cambiamenti climatici stanno procedendo più velocemente rispetto alle nostre azioni […]. Malgrado ciò, la volontà politica, ovunque nel mondo, è scemata”. Quel che vale soprattutto per l’Europa, leggendo quanto scritto recentemente dall’European Environment Agency:
(a) “i progressi verso i target su clima ed energia per il 2020 stanno attenuandosi”;
(b) solo “15 Stati Membri possono considerarsi in grado di conseguirli”;
(c) solo 5 Stati sono sulla traiettoria giusta per conseguire gli obiettivi fissati per il 2030.
L’unico merito di COP 24 è di aver fatto emergere le contraddizioni tra paesi ricchi e paesi emergenti nell’implementazione delle politiche climatiche
Se è indiscutibile che niente di rilevante sia sinora accaduto alla COP 24, almeno restando ai suoi atti ufficiali, non può comunque dirsi che sia stata inutile. Per un’importante quanto sottovalutata ragione: aver fatto emergere le contraddizioni tra paesi ricchi e paesi emergenti nell’implementazione delle politiche climatiche: tra chi è in grado di permettersele e chi no; tra chi ne sarebbe vittima, come la Polonia col carbone, e chi se ne avvantaggerebbe, come i produttori di metano o delle rinnovabili. Insomma una divisione tra vincitori e vinti simmetrica a quel che ha evidenziato la protesta di ‘gilet gialli’.
È significativo al riguardo che un gran numero di paesi – 45 sinora di cui 27 a basso reddito – abbia sottoscritto la Solidarity and Just Transition Silesia Declaration presentata dal Presidente della Polonia, ove si sostiene che la creazione di un’economia low-carbon deve essere: (a) strettamente subordinata alla sua approvazione sociale, senza che ne derivino perdite di posti di lavoro; (b) che tale obiettivo richiede una piena solidarietà e mutua responsabilità tra i paesi in funzione delle diverse necessità e aspettative dei vari paesi. “Vi è una ragione – ha dichiarato il Presidente della Polonia – se il tema del Summit di quest’anno è Changing Together ed è che la storia ci ha insegnato che agendo insieme, in spirito di solidarietà, possiamo raggiungere cose impossibili”.
Significativo che un gran numero di paesi (ricchi) abbia sottoscritto la Solidarity and Just Transition Silesia Declaration che antepone tempi ed esigenze dei paesi a quelli del clima
Una dichiarazione importante, impegnativa, innovativa rispetto all’approccio tradizionale alle politiche climatiche, che – ha aggiunto – devono mirare alle migliori soluzioni non solo per il clima quanto per la “global community”. In altri termini: il treno della transizione energetica dovrà procedere nel rispetto delle esigenze di tutti i paesi e nei tempi loro necessari per adeguarsi al cambiamento.
Tempi – questo è il punto – che non è detto siano compatibili con quelli dei cambiamenti climatici. Che a firmare la Dichiarazione di Solidarietà siano stati paesi ricchi come la Germania, la Francia, la Svezia, la Finlandia, il Canada (ma non l’Italia) è testimonianza di una forse mutata consapevolezza sulle difficoltà socio-politiche che incontra la transizione energetica rispetto alla visione manichea e semplicistica in cui è stata sinora posta dal mondo scientifico.
Le COP che si sono succedute a Parigi si sono ridotte ad una gioiosa passerella senza alcun effettivo passo in avanti sulla via delineata dall’Accordo di Parigi.
Una riflessione infine sull’utilità di queste Conferenze che nelle tre edizioni che si sono tenute dopo Parigi (COP 22, 23, 24) hanno finito per ridursi ad una passerella – anche gioiosa come furono i balli di Bonn e i concerti di Katowice – degli interessi costituiti e relative lobby, delle centinaia di organismi governativi e non che si dicono impegnati nella lotta ai cambiamenti climatici, delle burocrazie che attorno ad essi si sono ramificate, dei centri di ricerca universitari e d’altro tipo, senza che si registrasse alcun effettivo passo in avanti sulla via delineata dall’Accordo di Parigi.
Se così dovessero continuare le cose temo sia nel vero quel gruppo di studiosi del Tyndall Center for Climate Change che, dati alla mano, ha scritto che i ricercatori universitari, e aggiungiamo noi le decine di migliaia degli altri partecipanti alle COP, “sono tra i maggiori inquinatori per le emissioni prodotte volando in aereo alle conferenze”.
Aggiungo alle parole di Alberto Clò che spesso gli Stati più ricchi sono anche quelli che si ritiene possano temere meno gli effetti dei cambiamenti climatici. Oltre ad essere quelli con interessi economici da tutelare che non sono allineati alle politiche contro i cambiamenti climatici. Uno stato di cose che emerge con molta chiarezza anche guardando una cartina degli Stati Uniti d’America dove siano evidenziati gli Stati che hanno target per la produzione da fonti rinnovabili e dove sono già installati impianti eolici.
Così va il mondo. Dove non si sa.