Recentemente mi è capitato l’onore e l’onere di essere chairman di un dibattito tra Richard Lindzen, professore emerito di Scienze dell’Atmosfera all’MIT di Boston e noto “scettico” a livello internazionale, e Paul Williams, professore di Scienze dell’Atmosfera all’Università di Reading, di vedute decisamente opposte.
L’onere si è poi rivelato non essere così pesante come le premesse parevano far supporre perché, oltre al reciproco rispetto e stima professionale che i due relatori hanno dimostrato durante tutta la sessione – atteggiamento che dovrebbe essere scontato in un confronto scientifico ma che ultimamente non va troppo di moda specialmente quando si parla di clima – si sono evidenziati molti più punti di accordo rispetto a quel che si poteva supporre.
Tra questi, ha attirato la mia attenzione un “particolare” del V rapporto dell’IPCC (AR5) che merita a mio avviso di essere riportato nella giusta prospettiva e cioè che l’IPCC, nel presentare le migliori stime per l’Equilibrium Climate Sensitivity (ECS), definita come la variazione all’equilibrio della temperatura media globale a causa del raddoppio dell’anidride carbonica in atmosfera, presenta un intervallo di possibili valori tra 1,5°C e 4,5°C e sottolinea in maniera molto marcata che non ne viene indicato un valore più probabile.
Prendendo per ECS un qualunque valore nell’intervallo, non si commette alcun errore in quanto tutti sono accettabili dal punto di vista scientifico
Per non dare adito a fraintendimenti o errate traduzioni, riporto di seguito il pezzo tratto dal Technical Summary di AR5: “In contrast to AR4, no best estimate for ECS is given because of a lack of agreement on the best estimate across lines of evidence and studies and an improved understanding of the uncertainties in estimates based on the observed warming. Climate models with ECS values in the upper part of the likely range show very good agreement with observed climatology, whereas estimates derived from observed climate change tend to best fit the observed surface and ocean warming for ECS values in the lower part of the likely range.”
Trovo il messaggio molto chiaro e per certi versi dirompente: nell’intervallo di confidenza ciascuno è libero di scegliere il valore di ECS che ritiene più opportuno e i modelli climatici, assumendo valori alti della ECS, prevedono temperature più alte di quelle osservate.
Ma facciamo un attimo un passo indietro e capiamo meglio di cosa stiamo discutendo: l’effetto serra dell’anidride carbonica è considerato noto e vi è un consenso generalizzato sul fatto che il nostro Pianeta si scalderebbe di poco più di 1°C ad un raddoppio della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera “a parità di tutto il resto”, cioè senza i feedback positivi e negativi del complesso sistema climatico terrestre. In particolare, tra i feedback più importanti vi sono quelli originati dalla presenza di acqua in atmosfera nelle sue diverse forme, sia come gas che sotto forma di nuvole, che l’IPCC stesso in AR5 ci ricorda rappresentare ancora una grossa incognita: “The water vapour/lapse rate, albedo and cloud feedbacks are the principal determinants of equilibrium climate sensitivity… Cloud feedbacks continue to be the largest uncertainty”.
La discussione scientifica non verte quindi sull’effetto serra dell’anidride carbonica ma sull’enorme incertezza dei feedback del sistema climatico terrestre: di quanto aumenterebbe la temperatura del nostro Pianeta ad un raddoppio di CO2? E su questo l’IPCC è molto cauto dando un intervallo di pari probabilità tra 1,5°C e 4,5°C.
Considerando valori prossimi ad 1,5°C, cadono in pratica tutti i proclami catastrofisti riguardo al cambiamento climatico, mentre se si assume ECS prossima a 4,5°C, risultano insufficienti le misure previste dagli accordi internazionali come quello di Parigi. Eppure su questa incertezza si fondano le policy mondiali.
È quindi un messaggio che riporta su un piano più scientifico la discussione sui cambiamenti climatici ed indebolisce le previsioni dei modelli climatici: come se non bastasse, in un articolo di Le Scienze del 9 Ottobre, commentando il recente Special Report on Global Warming of 1.5 °C (SR15) si legge “La precedente valutazione dell’IPCC, pubblicata nel 2014, stimava che, al ritmo di emissioni attuali, il mondo avrebbe superato la soglia di +1,5°C all’inizio degli anni 2020. L’ultimo rapporto ha portato questa soglia temporale al 2030 o al 2040 sulla base di studi che hanno rivisto il livello di riscaldamento che abbiamo già raggiunto”. In realtà, da SR15 headline statements 2018, si legge “Global warming is likely to reach 1.5°C between 2030 and 2052 if it continues to increase at the current rate (high confidence)”, quindi ancora più avanti nel secolo.
Non sto certo sminuendo la gravità del riscaldamento globale se questo dovesse superare gli 1,5 gradi nel 2052 anziché nel 2020. Quel che mi sembra importante sottolineare è la cautela con cui l’IPCC propone certe stime, il che costituisce a mio avviso un elemento da non sottovalutare nel dibattito scientifico sul cambiamento climatico.
Va inoltre sottolineato il fatto che prendendo per ECS un qualunque valore nell’intervallo di riferimento, non si commette alcun errore in quanto tutti sono accettabili dal punto di vista scientifico: la differenza sta nel fatto che considerando valori prossimi ad 1,5°C, cadono in pratica tutti i proclami catastrofisti riguardo al cambiamento climatico, mentre se si assume ECS prossima a 4,5°C, risultano insufficienti le misure previste dagli accordi internazionali come quello di Parigi. Eppure su questa incertezza si fondano le policy mondiali. E non è cosa da poco, alla luce di cosa sta accadendo in Francia e del recente report dell’European Environment Agency Trends and projections in Europe 2018 ove viene mostrato, come si vede nella figura, che l’Europa non è in linea per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 ed ancora meno quelli previsti al 2050 e viene chiaramente detto che sono necessari ulteriori sforzi.
Ma, alla luce di quanto detto, siamo sicuri dei risultati di questi eventuali ulteriori sforzi?
Gianluca Alimonti è ricercatore INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e Docente di Fondamenti di Energetica per la Laurea magistrale in Fisica, all’Università degli Studi di Milano.
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