È difficile trovare di questi tempi vertici di grandi aziende che non si dicano entusiasticamente proiettati a rendere più green la loro azienda: riducendone l’impronta carbonica, investendo in pannelli solari o puntando sull’economia circolare. È altrettanto vero però che la comunicazione spesso prevale sulla sostanza, facendo fare bella figura con poco.
In un’interessante ricerca su un gran numero di aziende l’economista indiano Srinivasan Sunderasan ha sostenuto che negli ultimi anni gli investitori hanno modificato l’atteggiamento verso le clean energy: “da una genuina opportunità di business, specie quando attratti da tariffe favorevoli, ad un’attività secondaria di altri business o al solo scopo di ‘dipingersi di verde’ (green wash).”
È mutato l’atteggiamento degli investitori verso le clean energy, da genuina opportunità di business, ad attività secondaria o di green wash – Srinivasan Sunderasan, economista
Insomma: parlano bene ma razzolano male, come può dirsi di grandi multinazionali (si vedano le deforestazioni causate dalla coltivazione dell’olio di palma o del cacao) ma anche di molti paesi tacciabili di ‘ipocrisia climatica’ (Norvegia, Germania, Olanda etc.). Gli annunci e gli impegni presi a parole vanno, in conclusione, considerati con grande cautela.
L’amara controprova sta d’altra parte nel fatto che, a dispetto delle promesse di Parigi, dei bilanci aziendali di sostenibilità, delle mille annunciate innovazioni, le emissioni, anziché ridursi come richiesto dall’IPCC delle Nazioni Unite, hanno ripreso a crescere nello scorso biennio (+4,3%) con la previsione di un ulteriore peggioramento nel 2019 per fatti avvenuti lo scorso anno, a iniziare dalla deforestazione di 8.000 km2 nell’Amazzonia in Brasile.
Una best practice che va diffondendosi nelle aziende è di inserire nella loro politica di remunerazione un rapporto diretto tra compensi e strategie ambientali. Secondo un’interessante ricerca di Disclosure Insight Action (in fondo al testo), il 47% delle 859 aziende intervistate offre incentivi per i dirigenti che gestiscono il cambiamento climatico in generale, mentre il 25% riconosce incentivi specifici per gli obiettivi raggiunti, come diminuzione delle emissioni o simili.
Perché non recepire anche nel nostro Paese una Corporate Governance ‘Green’ che offra incentivi per i dirigenti che raggiungono obiettivi ambientali, come il calo delle emissioni?
Una pratica adottata da ultimo dal board della BP che ha accolto in anticipo la risoluzione che molti investitori istituzionali (tra cui la Chiesa Anglicana) intendevano proporre in tal senso alla prossima assemblea della società anche per rendere più trasparente le strategie di contrasto ai cambiamenti climatici che intende perseguire.
Innovando la politica di remunerazione la BP si è auto-vincolata, in sostanza, a un insieme di regole con cui valutare le conseguenze delle proprie azioni, legando l’interesse individuale a quello aziendale. Lo ha deciso per dar seguito agli ambiziosi obiettivi che si è data – con lo slogan “providing more energy with fewer emissions” – ma anche per recuperare la reputazione perduta col disastro nel 2010 della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico che le è costato 65 miliardi dollari.
Anche l’Eni ha adottato una simile politica ancorando parzialmente i piani di incentivazione di breve alle emissioni di CO2 rispetto alla sua complessiva produzione di idrocarburi. La decisione della BP assume però un significato ancor più importante per essere la società inglese una delle grandi oil major nel mondo occidentale e per il fatto che coinvolgerà non solo i dirigenti con maggiori responsabilità, ma ben 36 mila addetti del gruppo a livello mondiale.
“Building an emissions reduction target into the reward of people throughout BP further underlines the importance we place on this work” –Bob Dudley, CEO di BP
Come la società londinese riuscirà a rendere compatibile il suo core business che resta strettamente ancorato agli idrocarburi con lo sviluppo delle tecnologie low-carbon è tutto da vedere, considerando che gli investimenti in queste ultime sono una goccia rispetto ai 15-16 mild. doll. spesi nell’oil&gas con l’obiettivo di aumentarne del 25% la produzione entro il 2021.
Le innovazioni nella corporate governance attuate da molte aziende nella politica di remunerazione costituiscono una mossa interessante e lungimirante. Avanziamo dunque la proposta al Comitato italiano per la Corporate Governance di recepirla – con la dovuta gradualità – anche nel nostro Paese.
Rafforzando il collegamento tra remunerazione e obiettivi ambientali (non solo legati all’abbattimento delle emissioni), le imprese ne guadagnerebbero in termini di reputazione e di apprezzamento degli investitori, mentre si aprirebbero opportunità di business.
Si vedrebbe inoltre chi vi crede davvero e chi intende solo green wash.
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