19 Marzo 2019

Governare la transizione per evitare l’emarginazione: Alberto Bombassei sul futuro della mobilità

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Intervista ad Alberto Bombassei, Presidente di Brembo Spa

Nel mondo industriale italiano Lei è tra i pochi che ha evidenziato i gravissimi danni – industriali, sociali, geopolitici – che la fuga in avanti sull’auto elettrica e in generale sul greentech rischia di causare sia all’intera manifattura europea che all’Europa. Può sintetizzare questi danni e spiegare la ritrosia di gran parte dell’industria a condividerli?

Credo che purtroppo l’informazione, anche scomoda e non secondo il senso comune, circa i possibili danni sistemici di una transizione forzata alla mobilità elettrica non faccia notizia e di fatto interessi poco il mondo dei media, cartacei e virtuali, e sono quindi contento che la sua rivista sia una delle lodevoli eccezioni.

Quello della mobilità futura non è un tema settoriale, bensì sociale, geopolitico ed economico

In realtà è da tempo che le singole aziende e le associazioni di settore, sia in Italia che in Europa cercano di sensibilizzare un dibattito serio e responsabile sulla necessità di governare la transizione verso nuovi modelli di mobilità. Il presidente di PSA e ACEA, Carlos Tavares, ad esempio, alcuni giorni fa ha rilasciato un’intervista a Le Figaro molto chiara e decisa su questi temi. Dopo aver ceduto all’Asia, e segnatamente alla Cina, la produzione di moltissimi beni industriali, pensiamo ai microchip e all’elettronica di consumo ad esempio, cedere anche il controllo della mobilità futura sarebbe gravissimo e creerebbe un effetto domino che avrebbe effetti letali su intere filiere industriali occidentali.

Dopo aver ceduto all’Asia la produzione di moltissimi beni industriali, cedere il controllo della mobilità futura sarebbe gravissimo e creerebbe un effetto domino letale per intere filiere industriali

L’industria automotive, infatti, in Europa assorbe circa il 40% dell’output dell’industria chimica, e oltre il 50% della produzione di macchine utensili e di getti fusi di metalli, sia ferrosi che non ferrosi. È indubbio che a seguito dello scandalo delle emissioni dell’estate del 2015 tutta l’industria dell’autoveicolo è stata punita e ‘mandata dietro la lavagna’ perdendo la voce. Oggi parlare di diesel puliti ed efficienti appare eretico, anche se è puro buon senso. Eppure basterebbe pensare che solo il settore automotive in Europa garantisce entrate fiscali agli Stati per circa 420 mld €, 72 solo in Italia rappresentati per i due terzi da accise sui carburanti.

Il settore automotive in Europa garantisce entrate fiscali agli Stati per circa 420 mld € (72 solo in Italia), come pensa la politica di sostituire queste entrate?

Sarebbe interessante chiedere alla politica come pensa di sostituire queste entrate a seguito di una massiccia elettrificazione del parco, magari usando soldi pubblici per sussidi, come già fatto disastrosamente per il fotovoltaico. Il tema vero è che quello della mobilità futura non è un tema settoriale, bensì un tema sociale, geopolitico ed economico di primaria rilevanza per tutto l’Occidente, Europa in testa e quindi Italia compresa.

Quanto a Suo avviso pesano la demonizzazione del diesel, la regolazione sempre più restrittiva sui livelli di emissioni, le pesanti incertezze sulle politiche pubbliche nella pesante contrazione del mercato europeo nella seconda metà del 2018 e prospettive fosche per il 2019?

Partiamo da un dato incontrovertibile: la CO2 emessa dai trasporti stradali rispetto al totale della CO2 emessa annualmente vale rispettivamente il 7% per i veicoli leggeri (auto e van) e l’8% per quelli pesanti (camion e bus). Sono numeri certamente rilevanti e sui quali giustamente intervenire in maniera tempestiva e assai significativa, ma siamo sicuri che anche il restante 85% è normato e sanzionato nello stesso modo? Siamo sicuri che tutti i Paesi che concorrono ad emettere grandi volumi di CO2 (Cina e Stati Uniti insieme rappresentano poco meno del 50% delle emissioni globali) stiano correndo insieme a noi e non stiano creando invece alle nostre spalle e a nostro danno vantaggi competitivi per le loro industrie ed occupazione a danno dell’ambiente e dell’Europa?

Siamo sicuri Cina e Stati Uniti non stiano creando vantaggi competitivi per le loro industrie ed occupazione a danno dell’ambiente e dell’Europa?

Queste domande sono fondamentali da sempre, ma dopo il dieselgate la politica ad ogni livello non le ha raccolte, anzi ha cercato di indirizzare, sbagliando, il modello industriale europeo forzatamente verso l’elettrificazione del parco. Che potrà solo avvenire acquistando massicce quantità (centinaia di miliardi di unità) di celle per batterie – normali “pile” in apparenza – prodotte per oltre il 90% in Asia, con dubbi vantaggi sulla reale decarbonizzazione del Pianeta e con un sicuro effetto di deindustrializzazione e disoccupazione dell’Occidente. È questo che vogliamo, cittadini e politici? Consegnarci mani e piedi ad un oligopolio assai più ristretto rispetto a quello oggi presente nelle fonti fossili? E che dire della convenienza all’acquisto per i consumatori in senso ampio, sia nel prezzo di acquisto che di certezza della possibilità di muoversi quando è necessario (l’autonomia e i punti di ricarica sono due temi tutt’altro che risolti)?

Forzare il modello industriale europeo verso l’elettrificazione del parco auto comporta dubbi vantaggi sulla reale decarbonizzazione del Pianeta e un sicuro effetto di deindustrializzazione e disoccupazione dell’Occidente

Detto questo, l’industria dell’autoveicolo è per sua natura ciclica, e negli ultimi nove anni, dopo il collasso mondiale del 2009, ha conosciuto un periodo positivo prolungato. Le incertezze attuali sia geopolitiche che economiche hanno chiuso il ciclo espansivo e ora prevediamo un qualche calo dei volumi, e nel frattempo si investe massicciamente per la futura mobilità, non solo sul powertrain, ma anche su connettività, assistenza alla guida, materiali più performanti e sicuri.

Secondo Foreign Affairs, l’obiettivo della Cina è la conquista della leadership tecnologica e geopolitica mondiale nelle rinnovabili – solare, eolico, mobilità elettrica – anche attraverso il controllo nel Terzo Mondo dei materiali di base per costruire motori e batterie. Duplice obiettivo di quella che Lei ha indicato come “la guerra gentile della Cina”: legare a sé i paesi, specie l’Europa che puntano tutto sulle rinnovabili (regalando all’industria cinese centinaia di miliardi di incentivi) e contrastare l’“energy dominance” che l’America di Trump sta acquisendo negli idrocarburi con la shale revolution. Concorda con questa analisi?

La Cina, sotto la guida di Xi Jinping, porta avanti da tempo una politica economica ed internazionale molto aggressiva, in cui ha già impegnato oltre 210 miliardi di dollari (soltanto in Italia ci sono stati 13 miliardi di investimenti). La creazione di una nuova Via della Seta – non è il caso in questa sede commentare le polemiche strumentali che hanno reso difficile una lucida valutazione delle opportunità offerte all’Italia e all’Europa dal progetto – oltre alla crescente presenza cinese sui Paesi in via di sviluppo, in primis l’Africa, fanno parte dei programmi della legittima ma imponente espansione economica cinese.

La Cina vuole la primazia nell’elettrico e gli investimenti nei Paesi in via di sviluppo, dove si trovano le materie prime con cui produrre motori e batterie, la mettono in una posizione di grande vantaggio

Oggi l’Europa, sul fronte automotive, si trova in una posizione di svantaggio rispetto a questo partner. La Cina sta facendo grossi investimenti e vuole, senza dubbio, la primazia nell’elettrico. E appunto gli investimenti nei Paesi in via di sviluppo, dove si trovano le materie prime con cui produrre motori e batterie, mettono il gigante asiatico in una posizione di grande vantaggio.

Il principale mercato di veicoli elettrici al mondo impone ai costruttori almeno un’immatricolazione elettrica ogni 10 vetture, una conversione attualmente insostenibile per gli impianti europei

Si tratta inoltre del principale mercato di veicoli elettrici al mondo, con 28 milioni di veicoli l’anno, e in Cina esiste la regola del 10% che impone ai costruttori almeno un’immatricolazione elettrica ogni 10 vetture. Dunque se Volkswagen vende 4 milioni di auto l’anno, di queste 400mila devono essere elettriche o ibride. Capisce che la conversione degli impianti europei dovrebbe subire un’accelerazione insostenibile per il nostro attuale comparto.

Intanto continua lo spauracchio sui dazi del 25% sulle auto prodotte in Europa

Senza demonizzare la legittima ambizione della Cina in una guerra che si sta trasformando non su aspetti militari ma su quelli del dominio economico del mondo, è l’Europa che si fa dettare l’agenda. Inoltre, rischia di trovarsi sotto il fuoco incrociato di Cina e Usa. Prima gli Stati Uniti hanno mosso la guerra alla Cina sul fronte dei dazi che sarebbero dovuti scattare il 1 marzo, adesso la Casa Bianca fa marcia indietro e programma un incontro con Xi Jinping. Intanto continua lo spauracchio sui dazi del 25% sulle auto prodotte in Europa, che metterebbero in ginocchio tutto il tessuto produttivo automotive del Continente.

La penetrazione della mobilità elettrica richiederà tempi molto lunghi ed enormi investimenti con effetti sul clima molto incerti. Molto dipenderà infatti da come si produrrà l’energia elettrica addizionale, evitando l’ipocrisia dell’Olanda, che l’ha fatto aprendo centrali a carbone (!), o della Germania, che alimenta la sua elettricità per il 40% da centrali a carbone che non intende chiudere sino al 2038. Come spiegare questa schizofrenia o “sbalestramento psicologico e disarticolazione identitaria” come Lei l’ha definita?

 L’ho già richiamato in precedenza, l’industria dell’automotive – intesa come produttori di veicoli e di componenti – ha perso la voce dopo lo scandalo reputazionale del 2015. Di conseguenza, in assenza di controparti, le ONG e la politica – non adeguatamente informata – hanno fatto muovere il pendolo delle decisioni del tutto a favore di una elettrificazione forzata. Hanno preso, a mio giudizio, un grande abbaglio allineando l’Europa al modello di sviluppo cinese. E in tutta onestà, anche guardando in casa nostra l’attività di lobbying di alcune filiere molto interessate a indirizzare il processo in una direzione a loro vantaggiosa non è sempre stata a favore di una adeguata e trasparente informazione sui costi e rischi di questo scenario.

La regolamentazione europea favorisce marcatamente l’elettrico e la produzione di componenti asiatiche, indispensabili per raggiungere obiettivi quasi impossibili

Ora dobbiamo fare i conti con una regolamentazione europea che favorisce marcatamente l’elettrico e la produzione di componenti asiatiche, indispensabili per raggiungere obiettivi quasi impossibili. È giunto il momento nel quale l’industria e la parte più avveduta della politica sappia parlare con voce autorevole e nell’interesse olistico dell’Europa, sia dell’ambiente, che dei consumatori, sia dei lavoratori e dei ricercatori. Non è ancora troppo tardi per correggere il tiro, ogni legge sbagliata può e deve essere corretta, è responsabilità primaria della politica, e mi auguro che il prossimo Parlamento e Commissione sappiano esaminare gli scenari futuri con maggiore razionalità di quanto sin qui fatto.

Come potrebbe programmarsi una transizione razionale e graduale alla mobilità elettrica evitando di affondare l’industria europea con illusori benefici ambientali, considerando anche la scarsa e decrescente rilevanza dell’Europa nelle emissioni mondiali (meno del 10%). Dopo il grande flop del Protocollo di Kyoto – costato dal 2008 60 miliardi euro l’anno – si profila un ulteriore grande spreco di risorse?

Non sono il solo a ripeterlo da tempo, insieme a me vi sono le Associazioni di categoria, Anfia, Clepa, Acea solo per citarne alcune: governare la transizione verso la mobilità futura, che certamente deve vedere quella elettrica come uno dei pilastri, significa soprattutto rinnovare in tempi ragionevoli la parte del parco dei veicoli circolanti più vecchia, insicura e maggiormente inquinante. Solo in Italia abbiamo circa 7,5milioni di veicoli a livello Euro 3 o precedenti, su un totale del parco di circa 35milioni di veicoli.

Si deve innanzitutto rinnovare la parte del parco auto più vecchia e inquinante: in Italia abbiamo circa 7,5 mil. (su 35 mil.) di veicoli Euro 3 o precedenti

È certamente qui che occorre intervenire con misure di sostegno, favorendo l’acquisto di veicoli sia termici che ibridi ed elettrici Euro 6/d, e non creando mostricciattoli legislativi quali l’ecotassa, che a dispetto dei proclami è tuttora non pienamente implementata a causa di pesanti mancanze di chiarimenti e disposizioni attuative.

Se non governiamo adeguatamente la transizione, c’è il rischio che l’Europa si condanni da sola ad essere emarginata dal club dei grandi della Terra

Certo, il rischio è che se non governiamo adeguatamente la transizione, i prossimi dieci anni, l’Europa si condanna da sola ad essere emarginata dal club dei grandi della Terra sia in termini di tecnologia della mobilità che di occupazione, e non possiamo permetterci che ciò avvenga.

Alberto Bombassei è Presidente di Brembo Spa.


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