The next recession. How bad will it be?
Così titolava la copertina dell’Economist del 13 ottobre 2018, proseguendo che “it is just a matter of time”. Se accadesse, sarebbe la quarta recessione dagli anni Ottanta. Più o meno una ogni dieci anni. Rischio condiviso da Sergio De Nardis, secondo cui la fase espansiva del ciclo economico globale ha tagliato nel 2018 i dieci anni di durata così che il “verificarsi di una recessione è, prima o poi, da mettere in conto”. A causarla una pluralità di fattori: guerre tariffarie effettive/minacciate; rallentamento dell’economia cinese e dell’eurozona; Brexit.
Quali impatti avrebbe sull’energia una recessione o un rallentamento della crescita delle economie? Almeno due. Il primo di tipo diretto: la domanda di energia crescerebbe meno del previsto così come le emissioni di gas serra, che dal 2017 hanno ripreso a crescere, toccando nuovi record nel 2018, e sono attese in aumento anche nel 2019. Il secondo di tipo indiretto: una pressione al ribasso sui prezzi del petrolio già manifestatasi verso la fine dell’anno per stabilizzarsi da inizio 2019 sui 60-65 doll./bbl. Reuters non ne esclude una caduta a 20 doll./bbl, ma per gli otto maggiori previsori la media per il 2019 del Brent si manterrà intorno ai 65 doll./bbl.
Se da un lato minori prezzi del petrolio attenuano l’effetto depressivo della recessione sulla domanda, dall’altro riducono la raggiunta competitività delle rinnovabili elettriche, i cui investimenti hanno registrato lo scorso anno a livello mondiale una battuta d’arresto. Altro impatto si avrebbe sul flusso di investimenti necessari a decarbonizzare i sistemi energetici ed economici, che, in uno scenario di bassi prezzi, vedrebbero ridotta la loro redditività. Per le sole rinnovabili, IRENA stima un fabbisogno su scala mondiale di 25.000 mld $ entro il 2050 per accrescerne il peso dal 15% al 65% sul mix delle fonti primarie: circa 800 mld/a, oltre due volte quelli registrati nel 2017.
“Come” (non solo “cosa”) fare
L’articolo di Luigi Pellizzoni coglie esattamente il punto che Energia sta mettendo a fuoco da diversi numeri: la necessità di valutare le politiche climatiche non tanto o solo sotto il profilo tecnico-economico ma nondimeno in termini di equità per evitare “il fatto (reale o percepito poco importa) che si toglie ai poveri per dare ai ricchi, o si toglie di più ai primi e di meno ai secondi”. Una considerazione importante per tre ragioni: (a) perché utile a comprendere il corso degli eventi: dalle proteste dei gilet gialli francesi a quelle delle comunità locali che si oppongono a qualsivoglia progetto; (b) perché le cose sono destinate a peggiorare più queste politiche diverranno aggressive; (c) perché gli aspetti sociali non sono tenuti in alcun conto nell’impostazione delle nuove politiche, destinate poi inevitabilmente a pagarne lo scotto.
Da qui, la conclusione del mio articolo: “un qualsiasi documento programmatico dovrebbe interrogarsi sull’accettabilità sociale di quel che si propone; rendendone trasparenti i costi per la collettività e la loro redistribuzione tra le diverse classi sociali”. Ciò di cui non vi è la ben che minima traccia anche nell’ultima SEN – ribattezzata PNIEC – licenziata l’ultimo giorno del 2018. Analizzarla sulla base di quel che prevede sul “cosa fare” trascurandone le implicazioni su “come fare” riduce l’importanza di quel che si propone. Punto dirimente è la disponibilità degli agenti economici a dar credito agli impegni assunti dalle autorità pubbliche rischiando del loro. In assenza di fiducia difficilmente verranno realizzati gli investimenti che il PNIEC quantifica in 172 miliardi di euro da qui al 2030 (13,2 all’anno).
Medesima conclusione cui pervengono nel loro articolo Paolo Mastropietro, Fulvio Fontini, Pablo Rodilla e Carlos Batlle sul “nuovo” capacity market italiano a seguito dell’adombrato intendimento del Governo di non ricorrervi più sostituendolo con una «riserva strategica». La discontinuità della politica genera incertezza a detrimento dell’attrattività degli investimenti, che stando ad alcune accurate stime dovrebbero moltiplicarsi annualmente, in termini di potenza, di circa dieci volte nel solo fotovoltaico.
Ciò vale anche per il settore downstream petrolifero, analizzato da Marco D’Aloisi, chiamato a contribuire ai mutamenti attesi della domanda con 11 miliardi di euro di investimenti. Il presupposto per centrare gli obiettivi è che a guidare le politiche industriali dei prossimi decenni e a favorire il successo di una fonte di energia su un’altra siano la neutralità tecnologica e la sostenibilità economica, a garanzia della tenuta sociale e industriale del Paese.
Il ritorno degli Stati nella governance energetica
Altro tema trattato è il diffuso ritorno degli Stati nel governo dell’energia e nella proprietà delle imprese. Lo si è visto nei numeri precedenti nel caso della Gran Bretagna e della Francia. Lo esamina in questo numero Sören Becker, dell’Università di Berlino e di Bonn, relativamente alla Germania ove si è assistito a un proliferare di cooperative energetiche e a un ritorno della proprietà pubblica in molte utility energetiche, a partire da quella di Amburgo. A motivarlo, da un lato, gli scarsi risultati conseguiti dai processi di privatizzazione; dall’altro, le pressioni dei movimenti ambientalisti per consolidare la transizione verso le rinnovabili.
È un periodo di grandi cambiamenti per le utility elettriche, che negli ultimi dieci anni hanno attraversato un periodo altalenante, a tratti faticoso. Ne tracciano lo scenario “di sostanziali rischi ma anche notevoli opportunità” Tiziano Bruno, David Frankel, Sébastien Léger e Antonio Volpin (partner di McKinsey), esaminando le tendenze che sottendono la trasformazione del settore per poi proporre quattro possibili linee di azione che le consentano di resistere e prosperare.
Nel suo saggio, Stefano Clô affronta invece in un quadro più generale le ragioni del riemergere nel dibattito della proprietà dello Stato superando la tradizionale dicotomia pubblico-privato/inefficiente-efficiente in considerazione, da un lato, degli esiti perlomeno dubbiosi conseguiti dalle privatizzazioni e, dall’altro, dei mutamenti intervenuti nella governance delle imprese rimaste sotto il controllo pubblico. Identificando, al riguardo, le “condizioni che permettono all’impresa pubblica di migliorare la propria efficienza, di coniugare le logiche di mercato a obiettivi sociali che il privato non ha interesse a perseguire. Condizioni che vanno ricercate nei modelli organizzativi di impresa, nelle riforme di mercato, nella qualità delle istituzioni e della regolazione e nella volontà fattiva dei governi di investire nel settore pubblico risorse destinate a competenze e investimenti”.
Una considerazione tanto più rilevante ove si tenga conto dell’incertezza e confusione che avvolge il controllo pubblico delle due maggiori aziende energetiche del Paese. Che nel PNIEC entrambe non siano nemmeno citate solleva interrogativi su cosa significhi in pratica il carattere “strategico” con cui viene motivato tale controllo.
a.c.
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