Negli scorsi due mesi, metà febbraio-metà aprile, i prezzi del petrolio sono gradualmente saliti nella parte alta del range 65-70 dollari al barile, un gradino in su rispetto ai precedenti 60-65. Prezzi sostanzialmente in linea con quelli di un anno fa, ma inferiori ancora ai massimi di 85 dello scorso ottobre.
Negli ultimi giorni i fattori rialzisti sembrano prevalere su quelli ribassisti, specie sul mercato del metano con prezzi di riferimento sul TTF che hanno registrato nell’ultima settimana un balzo del 23% a 16,9 €/MWh, ancora inferiori di circa un quarto ai livelli di inizio anno di 22,3 €/MWh. Tre i fattori rialzisti, guardando specificatamente al petrolio.
Tre i fattori rialzisti interessano il mercato del petrolio
Primo: il calo (involontario) della
sua offerta per cause geopolitiche:
(a) sanzioni americane all’Iran dopo la denuncia nel maggio 2018 dell’accordo Joint
Comprehensive Plan of Action (JCPOA) sul nucleare;
(b) crisi interna del Venezuela acuita dalle sanzioni comminate da Trump con
crollo delle esportazioni soprattutto verso il mercato americano che ne
assorbiva circa un terzo;
(c) precipitare della crisi libica.
Già a inizio 2019 la supply disruption originata da queste cause poteva quantificarsi in 3 mil.bbl/g (pari al 3% dell’offerta mondiale): dovuta per l’80% a Iran e Venezuela e per il 20% a Libia, Iraq, Nigeria. In seguito le cose sono peggiorate.
Secondo: calo (volontario) dell’offerta di 1,2 mil.bbl/g decisa all’inizio del dicembre 2018 dai paesi Opec-non Opec (Opec+) per prosciugare l’oversupply con ribassi dei prezzi dagli 85 doll/bbl di ottobre ai 50 di fine anno.
Eccesso determinato soprattutto dall’Arabia Saudita decisa a fare “whatever it takes”, per usare le parole di Mario Draghi, per bilanciare sui mercati il calo iraniano. Da maggio a novembre 2018 la produzione saudita aumenta di 1 mil. bbl/g (a 11 mil.bbl/g) per poi calare dopo l’accordo Opec+ di 1,3 mil.bbl/g (a 9,7).
Terzo: crescente squilibrio nella qualità dei greggi offerti sul mercato per scarsità di quelli heavy sour (pesanti ad alto contenuto zolfo) per minor offerta iraniana e venezuelana con effetti sugli spread dei prezzi e sui margini di raffinazione.
Due i fattori ribassisti che merita evidenziare
Due i fattori che sul versante ribassista merita evidenziare. Primo: l’ulteriore crescita dello shale oil americano dovuta soprattutto all’entrata massiccia di ExxonMobil e Chevron nel Permian Basin forti di una base di giacimenti con elevatissimi livelli di produttività e bassissimi costi di sviluppo e produzione.
Secondo: la decelerazione della crescita dell’economia mondiale, dal +3,9% prevista un anno fa alle attuali previsioni del +3,5%, con un impatto comunque contenuto sulle aspettative di crescita della domanda per l’intero 2019 non lontane da quella degli anni scorsi: +1,4 mil.bbl/g. A trainare la domanda sarà soprattutto l’area non-Ocse (+1,1 mil.bbl/g), su cui incide soprattutto la crescita cinese ridottasi nel 2018 +6,6%, tasso più basso degli ultimi tre decenni, e nel 2019 al +6,2%.
Fattori rialzisti e ribassisti condizionano le aspettative per il resto dell’anno
Fattori rialzisti e ribassisti condizionano le aspettative per il resto dell’anno. Secondo l’Oxford Institute for Energy Studies (OIES), pressioni al rialzo dei prezzi potrebbero derivare da un’ulteriore riduzione dell’offerta iraniana e venezuelana (insieme -0,9 mil. bbl/g) cui non può escludersi l’azzeramento di quella libica tornata nel 2018, per la prima volta dal 2013, a 1,15 mil. bbl/g rispetto agli 1,5 pre-2011.
La complessiva contrazione involontaria dell’offerta salirebbe così a 5 mil. bbl/g (3+0,9+1,15). A questo effetto nel breve dovrebbe aggiungersi, forse ancor più importante, il venir meno della ricostituzione ed espansione della capacità produttiva che si prevedeva con la ripresa degli investimenti sia in Iran che in Libia. La coperta della futura offerta continua quindi a restringersi.
Tre fattori ribassisti potrebbero controbilanciare quelli rialzisti
Tre
i fattori ribassisti che potrebbero controbilanciare quelli rialzisti:
(a) una maggior offerta in risposta all’aumento dei prezzi soprattutto dello shale oil americano;
(b) una più accentuata decrescita della domanda di petrolio per minor crescita
dell’economia mondiale;
(c) un possibile aumento dell’offerta Opec, specie da parte saudita – forte di
una spare cpacity di 2,5 mil. bbl/g –
preoccupata di garantire stabilità dei prezzi e piena soddisfazione della
domanda (anche in vista del collocamento di Saudi Aramco).
Nella tensione tra fattori rialzisti e fattori ribassisti ancora una volta saranno le produzioni marginali a condizionare le dinamiche dei prezzi
Nella tensione tra fattori rialzisti e fattori ribassisti ancora una volta saranno le produzioni marginali a condizionare le dinamiche dei prezzi. La famosa ‘coda che muove il cane’. E se una volta quando dominava il petrolio convenzionale, l’offerta marginale era per definizione limitata (bassa elasticità offerta/prezzi), oggi grazie allo shale oil risponde con immediatezza a variazioni dei prezzi. Loro rialzi si traducono in poche settimane in offerta addizionale, e viceversa. Secondo l’OIES la media dei prezzi nell’intero 2019 potrebbe quindi collocarsi, anche tenendo conto dei diversi rischi, in un range 63-69 dollari al barile, in linea con i 65 che avevamo indicato nel nostro post del 14 febbraio.
I valori medi dei prezzi in corso d’anno assumono tuttavia un significato del tutto relativo. La volatilità è divenuta la cifra che più connota la dinamica dei prezzi. Per un settore ad alta intensità di capitale, lunghi tempi di ritorno, elevati rischi (above e below ground) è il peggior deterrente degli investimenti. La volatilità è aumentata per intensità e per immediatezza di risposta ad ogni minimo batter d’ali.
La volatilità è divenuta la cifra che più connota la dinamica dei prezzi
Impressionante è il grafico seguente che riporta l’impatto sui prezzi dei tweet di Donald Trump con intimazioni all’Opec o all’Arabia Saudita (KSA) di adoperarsi per ridurli, anche quando è stato lui a causarne gli aumenti, come per le sanzioni all’Iran o al Venezuela.
Il tweet, ad esempio, del 25 febbraio in cui Trump invitava l’Opec a stare cauta nel ridurre la produzione decisa con l’accordo Opec+ di fine dicembre, ha impattato sui prezzi del Brent riducendoli in una sola seduta del 3,5% da 67,12 a 64,76 mil. bbl/g.
Se le cose dovessero precipitare in Libia e rimanere in situazioni di stallo in Iran e Venezuela possiamo essere certi, o almeno confidare, che un qualche cinguettio scatti dalla Casa Bianca.
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