Nelle recenti elezioni europee i Verdi hanno riscosso un buon successo. Gli unici partiti che possono a pieno titolo sostenere di aver vinto. Nei loro paesi d’origine come nell’Unione.
In Germania i Die Grunen sono divenuti il secondo partito dietro quello Popolare, col 21,50% (22 seggi); in Francia, Finlandia, Danimarca: il terzo partito rispettivamente col 13,5% (12 seggi), 16% (2 seggi), 13,3% (2 seggi); in Austria il quarto partito col 14,1% (2 seggi).
Dei 28 paesi europei, in 15 i Verdi hanno ottenuto seggi; zero negli altri 13 tra cui l’Italia ove hanno registrato appena il 2,8%. In totale i Verdi hanno ottenuto 70 seggi rispetto ai 50 del precedente parlamento. Dei 750 eurodeputati (più 1, il presidente) ne contano poco più del 9%. Il loro peso politico a Bruxelles sarà tuttavia ben maggiore di questa ridotta quota, in ragione dell’influenza acquisita nelle loro politiche nazionali.
L’exploit dei Verdi alle recenti elezioni europee ripropone una situazione simile a quella della seconda metà degli anni Novanta
Una situazione simile a quella che vivemmo nella seconda metà degli anni Novanta, quando i partiti verdi entrarono per la prima volta nelle coalizione governative di diversi paesi. Così fu in Germania, in Francia, in Belgio, in Finlandia, in Italia. Dietro la pressione di quei governi – alleanze ‘rosso-verdi’ furono chiamate – l’Unione Europea avviò le grandi scelte che hanno caratterizzato la politica energetico-ambientale dello scorso ventennio, ad iniziare dalla sottoscrizione del Protocollo di Kyoto nel 1997 entrato in vigore nel 2005 grazie all’azione diplomatica della Commissione europea.
Antesignano di questa politica fu la Germania del Cancelliere Gerhard Schröder che fece approvare nel 2000 il Renewable Energy Act che avviò, grazie agli incentivi in tariffa, la grande fase espansiva delle rinnovabili nell’intera Europa.
Pur consapevole dell’effetto negativo che ne sarebbe derivato sui costi interni dell’energia, Angela Merkel, Cancelliere dal 2005, consolidò questa politica riuscendo nel semestre di presidenza dell’Unione della prima metà del 2007 ad imporla al resto d’Europa. Per due ragioni: non svantaggiare l’economia tedesca e favorire l’industria nazionale delle rinnovabili che contava allora centinaia di migliaia di occupati, prima di essere soppiantata da quella cinese.
L’azione tedesca ebbe la sua piena affermazione nel Consiglio Europeo di Berlino dell’8-9 marzo 2007 che per primo evidenziò “l’obiettivo strategico di limitare l’aumento della temperatura media globale al massimo a 2°C” avviando l’elaborazione della nuova Politica Energetica per l’Europa che porterà alla Direttiva 2009/29 del 20%-20%-20%.
La politica energetico-ambientale europea deve rinnovarsi alla luce dell’aggravarsi della situazione climatica globale e di piani nazionali troppo poco ambiziosi
Tornando all’oggi, con la vittoria dei Verdi, nelle politiche nazionali (i Die Grunen sono presenti nelle coalizioni di sette Lander) è da ritenere possa aprirsi una nuova fase nella politica energetico-ambientale europea in considerazione, da un lato, dell’aggravarsi della situazione climatica globale e, dall’altro, dell’inadeguatezza, a dire della Commissione, dei piani nazionali presentati dai paesi membri a Bruxelles a raggiungere gli obiettivi comunitari fissati per il 2030.
Una pressione a far di più e meglio è auspicabile avvenga, anche se è difficile immaginare quanto possa essere fatto senza impattare sull’economia europea e sulla sua competitività, già penalizzate da un costo delle importazioni prossimo ai 270 miliardi euro (2017), da 280 miliardi euro di tasse sull’energia (2016), da prezzi superiori sia dell’elettricità che del gas rispetto ai nostri competitori (Commissione Europea, Prezzi e Costi dell’energia in Europa, documento in fondo al testo).
Serve un approccio pragmatico che sproni a fare di più, senza minare la competitività dell’economia europea e attento all’impatto sociale
Da qui l’auspicio che nuove politiche siano adottate in modo pragmatico avendo cura dei costi e dell’impatto sociale che ne potrebbero derivare. Rivoluzionare dall’alto economie e modi di vivere – nel presupposto che questo non accada in modo spontaneo – potrebbe portare infatti all’adozione di rigidi sistemi di pianificazione scarsamente accettabili dalle società moderne. Imporrebbe una restrizione dei gradi di libertà perché “l’economia dei divieti e della burocrazia realizzata col pretesto dell’ecologia – ha scritto Albert Bressand – è un’economia punitiva”.
E le avvisaglie ahimè non mancano. Dall’idea del sindaco di Parigi Anne Hidalgo di dimezzare le 600 mila vetture in circolazione (chi dovrà rinunciarvi?) imponendo almeno due occupanti per auto o puntare a un’“alimentazione meno carnosa” col divieto di distribuire la carne due giorni la settimana; idem per l’intenzione del governo inglese di imporre un’“accelerazione nello spostamento verso diete più sane con ridotto consumo di carne di manzo, agnello e prodotti lattiero-caseari”; per finire con la recente proposta di due parlamentari ecologisti francesi, Francois Ruffin e Delphine Batho, di proibire i voli interni degli aerei se sia possibile raggiungere la meta in meno di cinque ore.
Proposte bizzarre che non potranno che causare una reazione negativa delle popolazioni come la lezione dei ‘gilet gialli’ dovrebbe aver insegnato: che il consenso sociale è imprescindibile e che l’autoritarismo non porta da nessuna parte.
Commissione Europea, Prezzi e Costi dell’energia in Europa, 9 gennaio 2019
Alberto Clò è Direttore Responsabile della Rivista Energia
Foto: Kevin Snyman / Pixabay
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