20 Giugno 2019

Torni lo Stato, ma senza le mance

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In diverse aree del mondo si assiste al ritorno dello Stato nella gestione dei servizi di pubblica utilità. Un ritorno ampiamente documentato su questa Rivista (si veda Energia 1.19, 4.18 e 3.18), da ultimo con l’articolo di Stefano Clô, i cui spunti di dibattito sono stati raccolti da Massimo Mucchetti e Carlo Scarpa che ne propongono un commento sull’ultimo numero di Energia.

Diversamente da Scarpa che teme i rischi di fare passi indietro, Mucchetti condivide un approccio riformista al neo-interventismo che può portare risultati positivi se guidato da soggetti capaci, responsabili e trasparenti e accompagnato concrete riforme di mercato, apertura alla concorrenza, creazione di Autorità indipendenti, riforme di corporate governance e apertura al capitale privato. A supporto di tale posizione, l’ex Presidente della Commissione Industria del Senato ripercorre le vicende di due liberalizzazioni/privatizzazioni: telecomunicazioni (negativa) ed energia (positiva).

A suo dire, alcuni fatti riguardo questo nuovo interventismo riaprono la discussione sui fini della corporation contemporanea e sul rapporto tra politica della concorrenza e politica industriale. Primo, la delusione suscitata dagli azionisti privati, che si sono sostituiti al Tesoro e agli enti locali: “schiavi del breve termine, questi soggetti hanno troppo spesso indebolito le aziende privatizzate e ne hanno peggiorato le prestazioni”. Secondo, la regolazione che “non sempre è riuscita a raggiungere il suo duplice obiettivo: sviluppare i servizi posti in concorrenza e proteggere i consumatori”.

Il ripensamento in atto sulle privatizzazioni dei ser­vizi di pubblica utilità si inserisce nella più generale espansione del capitalismo di Stato nel mondo

Viene quindi presa in esame la declinazione italiana del Washington Consensus nei settori delle telecomunicazioni e dell’energia, oggetto entrambi delle liberalizzazioni e privatizza­zioni più rilevanti. Com’era Tele­com Italia prima della fuoriuscita del Tesoro e com’è oggi, dopo ven­tidue anni di gestione privata? “Nel 1997, Telecom Italia era una delle più importanti imprese al mondo nel settore delle telecomu­nicazioni. […] All’avanguardia nell’uso delle tecnologie e nell’infrastruttu­ra, solida nello stato patrimoniale, redditizia ma non troppo, capace di una forte espansione multina­zionale. […] Tim è fragilis­sima sul piano patrimoniale, con attivi gonfiati da avviamenti di ori­gine finanziaria e un debito anco­ra elevato, costretta alla conserva­zione tecnologica, ormai arretrata nell’infrastruttura come dimostra­no le svalutazioni degli avviamenti, bersagliata dalla concorrenza, pri­va di respiro internazionale, con una compagine azionaria litigiosa e un top management instabile”.

Importante comprenderne le ragioni del disastro che, secondo Mucchetti, “deriva da due peccati politici originali: (a) la fede nell’ideologia dello shareholder value […] (b) la linea dell’Autorità di rego­lazione […] che hanno prodotto il tri­ste miracolo di avere oggi un’in­frastruttura insoddisfacente, una competizione forte tra aziende de­boli e provinciali, tutte controllate da capitali esteri, un incumbent che nemmeno paga il dividendo”.

Migliori sembrano esse­re i risultati raggiunti nei settori dell’e­nergia elettrica e del gas, nei quali “diversamente dalle telecomunicazioni, benché siano tutti quotati in Borsa, i campioni nazionali e regionali dell’energia sono controllati ancora dallo Sta­to e dalle maggiori municipalità [e] I bilanci delle società del settore energetico sono molto più solidi di quelli di Tim. […] Gli investimenti di questi nuovi mo­nopoli focalizzati a uso del mercato [Terna e Snam] sono più consistenti di quelli delle originarie divisioni in seno ai vec­chi monopoli integrati, privatizzati secondo il Washington Consensus”.

La liberalizzazione si accompagna a una grande piog­gia di sussidi per operatori di tutte le dimensioni con effetti fortemen­te distorsivi

I provvedimenti adottati “assai più drastici di quelli […] per le tele­comunicazioni” non sono tuttavia privi di ambiguità, come “la legge che istituisce l’Auto­rità per l’energia elettrica e il gas consacra anche il provvedi­mento Cip 6 del 1992 che regalerà ai cicli combinati dei grandi gruppi industriali privati sussidi a carico della bolletta elettrica”.

Gli effetti della liberalizzazione non sembrano riflettere appieno le prospettive che lo avevano alimentato. “Dal punto di vista dei consumatori, i benefici della con­correnza sul prezzo dell’energia vengono compensati dalla crescita degli oneri di sistema con i quali la bolletta finanzia i sussidi [mentre da quello] della concorrenza tra le imprese, nel gas la distribuzione al dettaglio resta in larga misura affidata a tanti piccoli monopo­li locali mentre la Borsa elettrica tratta quantità di MWh sempre più modeste per effetto delle priorità di dispacciamento accordate alla produzione da fonti rinnovabili”.

Difficilmente la concorrenza verrà accresciuta dalla soppres­sione del servizio di maggior tutela nella vendita al dettaglio

Nelle conclusioni, il senatore rileva come “l’utilità della presenza della mano pubblica nell’azionariato delle grandi imprese dei due setto­ri non può essere esclusa a priori come voleva vent’anni fa il Washin­gton Consensus. Tuttavia, si tratta di un’utilità che si concretizza se e quando l’azionista, il regolatore e il dominus della politica industriale trovano coerenze adeguate e con­vergenti di fronte allo sviluppo tecnologico e agli obiettivi di lun­go termine individuati dal gover­no nazionale e da quelli regionali. Coerenze che, come abbiamo visto, sono tutt’altro che scontate”.

Quale lezio­ne da trarre? “L’azionista più adatto per inve­stimenti stabili in un’impresa con tali vincoli (che nel tempo possono diventare opportunità) potrebbe certo avere natura pubblica. Ma dichiarando con chiarezza i propri fini, questo azionista pubblico po­trebbe trovare nel mercato finan­ziario una preziosa fonte di risor­se e, al tempo stesso, un antidoto contro le proprie storiche tentazio­ni. Perché, dopo aver detto tutto il male del Washington Consensus, il rischio Atac, in Italia, incombe”.

Il post presenta l’articolo Torni lo Stato, ma senza le mance (pp. 48-50) di Massimo Mucchetti, pubblicato su Energia 2.19

Massimo Mucchetti, Eureka 2018, già Presidente della Commissione Industria del Senato

Sullo stesso tema leggi anche Ma la soluzione non è nazionalizzare… di Carlo Scarpa
e Rischi e opportunità del ritorno dell’impresa pubblica di Stefano Clô

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Foto: PublicDomainPictures

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