Lo scorso 17 luglio l’edizione internazionale del New York Times apriva con un reportage intitolato: “vivere in una città senz’acqua” descrivendo quel che sta succedendo nella città di Chennai, sud-est dell’India, una metropoli da cinque milioni di abitanti che sta vivendo la più grave crisi idrica urbana mai conosciuta nella storia dell’umanità. Il racconto è agghiacciante e proviamo a sintetizzare rispettando la missione che ogni ricercatore dovrebbe porsi: la divulgazione.
Ebbene nella città di Chennai succede che aprendo il rubinetto di casa talvolta non esca nulla. Il che significa che l’acqua non è più una risorsa certa nella vita delle persone. Per sopperirvi ogni giorno dalle campagne arrivano 15.000 tra autobotti e “treni dell’acqua” che distribuiscono la preziosa risorsa ai cittadini che scendono in strada con recipienti di plastica sgargianti e in maniera ordinata aspettano il proprio turno. Per scongiurare liti, in prima battuta si ha diritto a riempire 4 recipienti cadauno e, solo nel caso in cui ci sia ancora qualcosa, si può fare il “bis”. Tutto ciò ovviamente ha una ricaduta sulla vita delle persone, avvezze a risparmiare acqua in ogni modo. C’è chi usa la stessa acqua di cottura per riso e pesce, chi ricicla l’acqua sporca rimasta nel lavello per annaffiare le piante, chi si fa la doccia solo quando deve uscire di casa, chi rinuncia alla lavastoviglie e alla lavatrice. Insomma quei comportamenti che in Europa consideriamo virtuosi lì sono diventati indispensabili.
Quei comportamenti che in Europa consideriamo virtuosi, a Chennai sono diventati indispensabili
E non è tutto. Perché quando dal lavandino non esce nulla, anche il reperimento dell’acqua diventa un lavoro. Ecco che allora in famiglia si fa a turno per stare in casa ad aspettare le autobotti, e tra vicini ci si avvisa quando ne arriva una nel quartiere. Una signora racconta come è cambiata la sua vita. Prima di fare la doccia, ad esempio, si assicura che ci sia acqua a sufficienza per i figli che devono andare a lavorare, in caso contrario rimanda a data da destinarsi. “E’ qualcosa di molto fastidioso non sentirsi puliti” confessa con un velo di vergogna. Da qualche tempo inoltre non riesce più ad andare a trovare sua madre dall’altra parte della città perché deve aspettare l’arrivo delle autocisterne. Tutto questo è estenuante – aspettare, preoccuparsi, restare vigili – e diversi intervistati rivelano che hanno problemi a prendere sonno. Un giovane racconta come ormai anche la condensa del condizionatore sia diventata a tutti gli effetti una vera e propria fonte di sostentamento. Nei giorni in cui dai rubinetti non esce niente, il condizionatore è l’unica risorsa idrica direttamente accessibile.
La città dipende da quattro bacini idrici che si stanno esaurendo. Le cause sono da cercare nell’aumento della temperatura (+1,3° in media rispetto al 1950), nelle precipitazioni, nella cementificazione (il principale bacino della città è stato ridotto per fare spazio a nuovi appartamenti). Non da ultimo vi è una cattiva gestione della risorsa idrica. Sono infatti molti gli abitanti della città che nel tempo si sono arrangiati costruendo pozzi e attivando un pompaggio autonomo, con il risultato che le falde acquifere più superficiali si sono prosciugate. L’acqua piovana viene raccolta e consumata ancora prima di cadere a terra e non esiste tetto su cui non sia installato un sistema di raccolta e stoccaggio.
Si parla tanto di riscaldamento globale e delle future guerre dell’acqua, eppure nessuno in Occidente percepisce il rischio concreto di restare senz’acqua
Non è dato sapere come l’amministrazione intenda affrontare questa drammatica situazione – il reportage non ne parla – ma il succo della vicenda è un altro. Si parla e si è parlato tanto degli effetti del surriscaldamento globale e da decenni sentiamo dire che il prossimo conflitto globale avrà proprio l’acqua come movente. Eppure nessuno, neanche tra gli occidentali più virtuosi, ha davvero mai preso in considerazione il rischio concreto di aprire il rubinetto di casa e sentire un rumore sordo invece che il normale scrosciare dell’acqua: nonostante gli annunci drammatici dei climatologi, nonostante la capitale del nostro Paese solo due estati fa si trovasse alle prese con una crisi idrica senza precedenti; nonostante le tragiche siccità che negli ultimi anni hanno colpito California, Zimbabwe, India e diversi paesi europei; nonostante gli abitanti della sesta metropoli indiana stiano seriamente iniziando a chiedersi se non sia il caso di trasferirsi verso luoghi più ospitali.
Eppure i dati delle Nazioni Unite dicono che già oggi oltre 2 miliardi di persone nel mondo non hanno accesso immediato alle risorse idriche, che circa due terzi della popolazione mondiale sperimenta una grave povertà idrica almeno un mese all’anno, e che a queste potrebbero aggiungersene altre 700 milioni da qui al 2030, considerando che un terzo dei principali bacini idrici mondiali risultano sotto stress.
Per abbattere a povertà idrica servirebbero 449 miliardi dollari l’anno, circa 6 volte gli investimenti attuali
Tutto è risolvibile, certo, ma le soluzioni costano. Alla COP 23 di Bonn del 2017 è stata presentata una stima del fabbisogno di investimenti nelle infrastrutture idriche mondiali per un ammontare di 255 miliardi dollari l’anno: tre volte il flusso attuale. E secondo il Global Water Intelligence per conseguire il Sustainable Development Goal delle Nazioni Unite per l’acqua l’investimento annuale dal 2018 al 2030 dovrebbe ammontare a 449 miliardi di dollari: circa 6 volte quelli attuali.
Stupisce quindi constatare come proprio nel ‘mondo ricco’ gli sprechi d’acqua rimangano assurdamente elevati, e per di più a fronte di investimenti pubblici e privati in calo. Il sistema idrico di Londra accusa perdite per oltre il 50% a causa di infrastrutture per la metà costruite più di un secolo fa. L’Italia non sta gran che meglio, con perdite prossime al 40% e un settore poco propenso a mettere mano al portafoglio.
In Italia le perdite sono nell’ordine del 40% e continuano a mancare gli investimenti
Il mondo dispone dell’acqua in quantità incommensurabile ma distribuita in modo diseguale e, per colpa dei cambiamenti climatici, in futuro sempre più aree urbanizzate diventeranno inadatte alla presenza dell’uomo, specie se questo vi risiede ad alti tassi di concentrazione. Anche per questa ragione la Banca Mondiale stima che al 2050 oltre 140 milioni di persone potrebbero scegliere la via della migrazione. Senza un’adeguata politica e i necessari investimenti, Chennai potrebbe essere solo la prima puntata di una lunghissima serie. Purtroppo tratta da una storia vera.
Qui il reportage completo del New York Times
Mattia Santori è ricercatore presso Rie-Ricerche Industriali ed Energetiche
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