29 Agosto 2019

Governo Conte: il bilancio di 14 mesi di (poca) energia

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Con la caduta del Governo Conte che accadrà a quella eufemisticamente indicata come ‘politica energetica italiana’? Politica che nei 14 mesi di vita del Governo è progressivamente evaporata producendo poco o nulla. Si prenda, a titolo di esempio, il caso emblematico dei gasdotti in cui si è assistito, da un lato, alla fine della penosa telenovela del gasdotto TAP (sulla base di presunte penalità che si sarebbero dovute alternativamente pagare), e, dall’altro, al veto posto per ritorsione dal Presidente del Consiglio ad un altro gasdotto, il Poseidon tratto terminale dell’EastMed, che avrebbe potuto veicolare sulle nostre coste le enormi risorse di metano scoperte nel Mediterraneo. Morale: il fallimento del progetto di fare dell’Italia un hub del gas in direzione Nord Europa e, per contro, la vittoria dell’asse Mosca-Berlino che ci porrà in posizione di sudditanza verso i due Paesi con la prossima realizzazione del gasdotto NordStream 2.

Altri casi potrebbero analizzarsi, quali: il nessun ruolo dell’Italia in Europa nella fissazione dei nuovi obiettivi energia-clima (il Ministro Di Maio non ha mai partecipato al Consiglio Europeo dell’energia); l’inazione verso il dilagare dell’illegalità nel settore dei carburanti o delle rinnovabili; il voluto affossamento dell’industria petrolifera nazionale.

La prima urgenza è la stesura entro fine anno della versione definitiva del PNIEC, che sarà vincolante e sanzionabile

Con la caduta del Governo due urgenze rischiano comunque di non trovar risposta. La prima è la messa a punto entro fine anno della nuova versione del Piano nazionale integrato per l’energia ed il clima (PNIEC) siglato a fine 2018 dai Ministri Di Maio, Toninelli, Costa (quasi identico a quello siglato un anno prima dai Ministri Calenda e Galletti del Governo Gentiloni) tenendo conto delle osservazioni formulate dalla Commissione europea. Riuscirvi sarà difficile visti i ristretti tempi e cercando di non fare le cose frettolosamente considerato che la sua stesura definitiva sarà vincolante e sanzionabile. In soldoni: se non rispetteremo gli impegni (crescita rinnovabili, miglioramento efficienza energetica, calo emissioni) dovremo pagare multe salate. La seconda urgenza a rischio è il venir meno dei provvedimenti legislativi – per altro già predisposti da lungo tempo – che avrebbero favorito il raggiungimento dei molto ambiziosi obiettivi fissati nel PNIEC per il 2030, specie nel campo delle rinnovabili.

Al di là di tutto che valutazione darne nel merito? Se i passati Piani (circa una decina) fossero stati sufficienti a darvi seguito, al mondo non saremmo secondi a nessuno, se non che non sono mai stati realizzati. Per capirne la ragione è necessario aver conto di cosa debba intendersi per strategia energetica: un documento programmatico in cui il Governo fissa interessi generali di lungo termine (sostenibilità, sicurezza, competitività); assicura la coerenza delle decisioni dei molti soggetti istituzionali che vi (inter)agiscono; verifica i risultati intervenendo eventualmente per correggerli. Valutare un Piano sulla base delle mille micro-azioni che prevede è poco significativo, dipendendo la loro realizzazione dalle convenienze di mercato e dalla sua coerenza con l’assetto istituzionale entro cui si cala. Un assetto centralistico/dirigistico – come accadeva sino agli anni 1990 – è altro da un regime di mercato in cui è determinante il ruolo degli agenti economici: i veri decisori.

Senza i grandi enti pubblici, con quali strumenti raggiungere gli ambiziosi obiettivi fissati nel PNIEC?

Da qui alcune domande a iniziare dagli strumenti di cui lo Stato dispone per indirizzare le cose nel senso auspicato. In passato il compito era affidato ai grandi enti pubblici (Enel ed Eni), a cui a seguito dei processi di liberalizzazione e di loro parziale privatizzazione sono state sottratte le finalità pubblicistiche – in primis essere «fornitore di ultima istanza» del Paese – che ne guidavano le scelte, senza peraltro che ne venissero ridefinite le responsabilità ‘strategiche’ da parte dello Stato-azionista. Oggi è il mercato a guidare le scelte, anche se nel recente passato la più parte degli investimenti è stata sostenuta da generosi incentivi o da una regolazione favorevole. Non possiamo pensare che questo avvenga anche in futuro a motivo soprattutto dell’impatto sui prezzi dell’energia sempre più insostenibili per milioni di famiglie.

Se il PNIEC si riducesse a una distribuzione di prebende le mancherebbe un fondamentale presupposto: la volontà degli imprenditori di credere nelle grandi opportunità tecnologiche, produttive, di mercato che si vanno palesando. Alla lunga gli incentivi distorcono mercato, concorrenza, capacità innovativa creando dipendenza dall’urticante volere della politica e dall’opaca discrezionalità delle amministrazioni pubbliche (come si è ampiamente visto). La ragione che un tempo li motivò, l’insufficiente convenienza delle rinnovabili, è d’altra parte venuta meno.

[continua]


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