12 Settembre 2019

Carbontax o ETS? Meglio valorizzare sull’IVA le emissioni

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Come ancorare il sistema industriale europeo ai cardini della sostenibilità senza minarne la competitività? Il Sistema europeo di scambio di quote di emissione (Emissions Trading Scheme, ETS) crea un’asimmetria competitiva tra le industrie che producono beni nel territorio europeo e quelle extra europee. L’adozione di una carbon tax alla frontiera avrebbe invece intenti e risvolti più protezionistici che ambientali. Meglio sarebbe, secondo Agime Gerbeti e Fabio Catino che affrontano il tema su Energia 2.19, adottare standard ambientali sulle emissioni anche per i prodotti esteri immessi nel mercato interno.

Un’ottima misura per conseguire quest’obiettivo consiste nel valorizzare sull’IVA la CO2 evitata in fase di produzione. Misura che può trovare nella tecnologia blockchain un appropriato strumento per la sua applicazione. Riproponiamo alcuni passaggi tratti dall’articolo.

“La globalizzazione dell’economia comporta che i consumatori possano acquistare beni prodotti in qualunque parte del mondo, ma soprattutto implica che la competizione si svolga principalmente rispetto al luogo di produzione dei beni e alle norme ivi vigenti. Quindi anche una tassazione diretta come l’obbligo di acquisto di titoli di emissione nel sistema ETS – Emissions Trading Scheme – o indiretta come il costo dell’energia che include gli incentivi alle fonti rinnovabili, anche se imposta per un fine «etico», nobile quale la sostenibilità ambientale delle industrie europee, determina un’asimmetria competitiva con quelle aziende concorrenti, per esempio cinesi, indiane o statunitensi che non devono ottemperare agli stessi obblighi, potendo quindi escluderne maggiorazioni dal costo finale del bene sul mercato.”

L’Europa può vantare il mix energetico di gran lunga meno emissivo del Pianeta, ma i suoi 500 milioni di consumatori acquistano prodotti extra-UE fortemente emissivi senza prevedere alcun limite ambientale

“In altri termini, l’Europa può vantare il mix energetico per approvvigionare le proprie imprese di gran lunga meno emissivo del Pianeta, ma sottopone la produzione industriale sul territorio a una serie di vincoli emissivi che comportano un impegno in termini di costi industriali; contemporaneamente consente che i propri (benestanti) 500 milioni di consumatori acquistino prodotti indiani, cinesi e statunitensi fortemente emissivi senza prevedere alcun limite ambientale, con la conseguenza che, sul mercato europeo, i prodotti «sporchi» saranno più competitivi sul prezzo anche (e proprio) perché senza obblighi di sostenibilità.”

“Di fronte a questo paradosso – non così evidente alla Commissione europea e a quelle società che guadagnano cifre significative proprio con il mercato delle quote di emissione o che traggono enormi profitti dal dumping ambientale – esistono risposte di varia natura: per esempio il Presidente Trump ha eliminato gli obblighi ambientali alle imprese statunitensi e intende anche aumentare i limiti di emissione delle automobili”.

In Europa si ipotizza la carbon tax alla frontiera con intenti più protezionistici che ambientali

“In Europa si ipotizza la carbon tax alla frontiera con intenti più protezionistici che ambientali (per la confutazione degli asseriti effetti positivi sull’ambiente della carbon tax si veda qui). Infatti, una tassa che si basasse sulla provenienza di produzione, per applicare una determinata aliquota linearmente, non premierebbe i beni (anche cinesi) più sostenibili e avrebbe il risultato, se non l’intento, di difendere esclusivamente la produzione industriale interna senza alcun reale impatto ambientale”

Senza contare che “una tassa «contro» la Cina, l’India etc., troverebbe resistenze e opposizioni politiche fortissime anche tra gli imprenditori europei che esercitano la produzione delocalizzata.” 

“La necessità di un approccio economico risolutivo al problema dei cambiamenti climatici accredita una soluzione diversa: valorizzare sull’IVA le reali e puntualmente contabilizzate emissioni di CO2 prodotte durante la fabbricazione dei beni, come se questi beni contenessero ancora i gas climalteranti che ne hanno caratterizzato la realizzazione e attribuire nel mercato di destinazione, europeo, tale aggravio a prescindere da dove il bene è stato prodotto”.

“La valorizzazione delle emissioni industriali per la produzione farebbe sì che, oltre al prezzo e alla qualità, un parametro della competizione di mercato risieda anche nella sostenibilità. La competizione industriale sul mercato europeo avverrebbe così anche sulla base di chi emette meno nella produzione.”

Non ha alcun senso da un punto di vista ambientale – e industriale – disincentivare le produzioni locali europee a basse emissioni nel confronto di mercato con quelle più inquinanti

“Nella formulazione della proposta sull’imposta sulle emissioni aggiunte (Imea), l’ipotesi è ancora più radicale per i siti produttivi esterni all’Unione Europea che dovrebbero sottoporsi volontariamente a un percorso costituito da fasi complesse e articolate quali certificazione, controllo e valutazione specifica. Sebbene su base volontaria, comunque l’adesione al meccanismo verrebbe stimolata applicando l’aliquota massima a coloro che non aderiscono, presumendo un compromettente motivo ambientale alla radice della non adesione. Il sistema non è quindi strutturato sulla base di un trattato bi o plurilaterale – con le difficoltà che si evidenziano in sede internazionale sul tema – ma comporta un’adesione diretta delle industrie, a prescindere dal territorio produttivo, che rimarrebbe volontaria, seppur fortemente incentivata.”

La proposta è stata presentata al Parlamento europeo ed è stata oggetto di una mozione parlamentare nella precedente legislatura nonché di una risoluzione sostenuta da tutte le forze politiche, ha inoltre trovato l’appoggio di Enea, della FLAEI, di associazioni ambientaliste e di numerosi operatori industriali.

 “Una delle obiezioni più significative e meritevoli (…) riguarda l’asserita difficoltà di tracciare le emissioni di beni complessi come cellulari, automobili etc. assemblati con una moltitudine di materiali e di processi, spesso in nazioni e in contesti energetici differenti.”

Obiezione cui tuttavia gli Autori sostengono si possa dar risposta, come spiegano nel prosieguo dell’articolo, grazie all’applicazione della tecnologia blockchain “forse il migliore strumento in grado di garantire la tracciabilità certificata, univoca, sicura e trasparente delle emissioni di filiera sul prodotto”.

Il post riprende dei passaggi dell’articolo Blockchain e tracciabilità delle emissioni industriali (pp. 56-61) di Agime Gerbeti e Fabio Catino pubblicato su Energia 2.19

Agime Gerbeti è Professoressa di Sostenibilità Ambientale e Sociale presso la Libera Università Maria Santissima Assunta e Presidente del Consiglio Scientifico AIEE
Fabio Catino è Advisor dell’Agenzia qualità dei servizi pubblici locali di Roma per i servizi a rete e membro del Consiglio Scientifico AIEE 

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Foto: MaxPixel

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