10 Settembre 2019

Petrolio: variabile indipendente della ‘transizione energetica’

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A essere onesti sui prezzi del petrolio non ci si raccapezza più. I fondamentali sembrano contare sempre meno per non dire delle tensioni geopolitiche.

I ripetuti attacchi dal maggio scorso a petroliere sullo Stretto di Hormuz (con apparecchiature difficilmente contrastabili quali i droni) e quelli ai giacimenti e gasdotti dell’Arabia Saudita (provenienti, si dice, dai ribelli dello Yemen) un tempo avrebbero fatto schizzare i prezzi alle stelle.

Lo Stretto di Hormuz, in particolare, è il vaso di pandora geostrategico del petrolio: nel 2018 sono transitati 21 mil. bbl./g., pari a circa 1/5 dei suoi consumi e 1/3 dei suoi traffici marittimi. Attaccarlo avrebbe significato – fino a qualche tempo fa – rompere un delicato equilibrio, con conseguente ripercussione sull’andamento del Brent. Oggi l’ha invece visto solo leggermente rimbalzare e poi scendere dall’inizio di agosto intorno o sotto la soglia dei 60 dollari al barile.

Nei primi otto mesi del 2019 la media mensile del Brent Dated si è ridotta sul medesimo periodo dell’anno scorso dell’8% da 71 a 65 dollari. Ancor più violenta la contrazione, causata da un forte oversupply, dei prezzi del metano: del 59% ad agosto sul corrispondente mese del 2018 (TTF olandese riferimento dell’Europa Continentale) con una contrazione media nei primi otto mesi del 33%.

A scendere anche i prezzi dell’elettricità, che molto dipendono da quelli del gas, mentre si complica non di poco la grid parity delle nuove rinnovabili. Insomma, checché se ne dica, il petrolio resta e resterà pe non poco pivot dell’intero sistema energetico mondiale e variabile indipendente della ‘transizione energetica’ al dopo-fossili.

Come spiegare la perdurante debolezza dei prezzi? Non solo le prospettive della domanda, c’entrano anche efficienza e algoritmi

Come spiegare questa perdurante debolezza dei prezzi nonostante i numerosi focolai di crisi nel Medio Oriente, i tagli autoimposti dall’Opec+ e quelli involontari in Iran, Libia, Venezuela, Nigeria?

Certo vi contribuiscono le aspettative di minor crescita (non calo) della domanda nel 2019-2020 a livelli comunque in linea con quelli di lungo periodo (+1,1 mil.bbl/g). Ma c’è molto di più.

Due le altre possibili spiegazioni: efficienza e algoritmi. Il taglio dei costi di finding & development (F&D) dell’industria petrolifera per ridurre il loro breakeven per barile è stato impressionante, grazie ad una più severa disciplina finanziaria; taglio degli investimenti entro i limiti dei cash flows (al netto dei dividendi); minor dimensione dei nuovi progetti; estensione della vita utile di quelli in attività.

I costi di F&D si sono ridotti per le majors a poco più di 8 dollari al barile (l’AD di Eni, De Scalzi, ha dichiarato un costo di scoperta di 1 dollaro al barile) mentre il time-to-market tra scoperta e prima produzione si è ridotto da 10 anni a meno di 1 anno nel caso dello shale oil.

I costi si sono ridotti a poco più di 8 $/bbl per le majors, mentre il time-to-market da 10 a meno di 1 anno nel caso dello shale oil

Il taglio dei costi ha consentito alle imprese di far fronte al calo dei prezzi aumentando la produzione, che negli Stati Uniti si stima in crescita nel 2019 di altri 1,3 mil.bbl/g a 12,6, in decelerazione comunque rispetto al 2018.

I bassi costi hanno ancorato i prezzi a termine (forward prices) nei trascorsi quattro anni intorno a 60 dollari al barile contro i 90 del triennio 2011-2014. Segno, sottolinea il PIW, dell’aspettativa di ampi potenziali di offerta a bassi costi marginali.

Nell’ultimo Oil Market Report, l’Agenzia di Parigi prevede un non lieve oversupply a inizio 2020, quale combinato disposto di: un ulteriore aumento della produzione non-Opec di 2,2 mil.bbl/g contro una maggior domanda globale pari alla metà; della necessità per l’Opec di decidere ulteriore sempre più problematici tagli alla produzione se vuol mantenere il mercato in equilibrio; della guerra commerciale USA-Cina, che ha portato Pechino a imporre tariffe sull’import di greggio americano dal 1° settembre.

Tornando al taglio dei costi esso ha sterilizzato, unitamente alla crescita dell’offerta, l’impatto sui prezzi di traumi geopolitici. Se la prima ragione della dinamica dei prezzi, maggior efficienza ed offerta, è strutturale e confortante, non così può dirsi per la seconda, che accresce instabilità, incertezza, volatilità dei prezzi (in entrambe le direzioni).

Francesco Gattei, in un interessante articolo sul numero in uscita di Energia, l’individua nei famosi o famigerati algoritmi, che alimentano il mercato finanziario del petrolio e che, sfruttando memorie infinite di dati. Questi rispondono con immediatezza ad ogni segnale – magari un tweet mattiniero di Donald Trump – innescando decine di migliaia di transazioni finanziarie sui mercati del petrolio.

“Nello stesso tempo di reazione di Usain Bolt allo start (1,5 decimi di secondo) un computer è in grado di realizzare 160.000 operazioni. Moltiplicatelo per il numero di computer attivi sul trading e il potenziale economico che ne deriva è immane”

L’obiettivo del trading automatico gestito da computer è duplice: indentificare tutte le possibili correlazioni tra le variabili che possono determinare oscillazioni dei prezzi e mettere proposte di compravendita nel modo più rapido possibile.

In un mondo così istantaneo, rapido, schizofrenico, si attenua il tradizionale ruolo dei fondamentali strutturali – che comunque nel lungo termine non potranno che riaffiorare – mentre aumenta sproporzionatamente quello degli arbitraggi temporanei.

Una premessa non certo positiva per la costruzione di mercati lungimiranti, certi, stabili. Premessa imprescindibile dei governi per disegnare le strategie energetico-climatiche della ‘transizione energetica’ al dopo-fossili e degli operatori per adottare le loro conseguenti decisioni, specie sul versante degli investimenti.

Alberto Clô è direttore responsabile della rivista Energia


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