29 Ottobre 2019

Europa ed emissioni: serve chiarezza per non illudersi

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Che le emissioni nell’Unione Europea negli ultimi 20 anni si siano ridotte è fuori di dubbio, ma a cosa è dovuto? Un nuovo rapporto fa giustizia di molte semplificazioni avanzate in questi anni.

È uscito un interessante rapporto dell’Office of National Statistics britannico che fa giustizia di molte semplificazioni avanzate in questi anni sugli effettivi risultati conseguiti dai paesi europei nella riduzione delle loro emissioni di anidride carbonica.

Che le emissioni nell’Unione Europea si siano ridotte è fuori di dubbio. Se confrontiamo l’ultimo dato disponibile, il 2018, con quello del 1990 il calo è del 21%: da 4,4 a 3,4 miliardi di tonnellate, con una forte accelerazione nello scorso decennio (dopo l’esplodere della Grande Recessione) che ha visto concentrato l’80% della complessiva riduzione. La domanda da porsi, anche guardando alle future dinamiche, è quali siano le ragioni, virtuose o meno, cui ricondurre questo calo.

Anche se una disamina completa non è disponibile, esse potrebbero essere individuate nelle politiche climatiche definite a livello europeo; nella penetrazione (vincolante) delle rinnovabili elettriche; nel mutamento del mix produttivo da settori high-carbon (industria) a settori low-carbon (servizi); nei miglioramenti di efficienza nei settori d’uso. Non ultimo: nella contrazione della base industriale e nell’attività produttiva di molti paesi. Tra cui l’Italia che dal 2007 ha visto un loro ripiegamento di circa un quarto, con una occupazione manifatturiera ridotta di 650.000 unità.

Nel calcolo delle emissioni nazionali non si tiene in debito conto le emissioni incorporate nei beni importati

A queste ragioni che hanno contribuito alla riduzione delle emissioni se ne contrappone una che viene normalmente (e strumentalmente) trascurata: le emissioni incorporate nei beni importati. Se è pur vero che l’Unione ha saputo conseguire con anticipo l’obiettivo di riduzione del 20% fissato per il 2020 è altrettanto vero infatti che essa sarebbe inferiore se si tenesse conto delle emissioni importate.

L’Europa, in sostanza, mentre riduceva a caro prezzo la sua produzione di carbonio, l’esportava in misura ancor più consistente delocalizzando le proprie attività industriali in paesi con limiti alle emissioni meno rigorosi ma anche con maggiore intensità carbonica per unità d’output, per poi reimportarlo incorporato nei beni importati e consumati.

Si tratta del cosiddetto fenomeno del carbon leakage, che la Commissione Europea  definisce come: “Trasferimento delle emissioni di CO2 che può verificarsi se, per ragioni di costi dovuti alle politiche climatiche, le imprese intendono trasferire la produzione in paesi in cui i limiti alle emissioni sono meno rigorosi. Ciò potrebbe portare ad un aumento delle loro emissioni totali”.

Bruxelles era quindi consapevole che il meccanismo ETS avrebbe potuto aumentare e non diminuire le emissioni globali. Se le emissioni fossero conteggiate al livello dei consumi e non della produzione, l’entità delle loro riduzioni (se non il segno) muterebbe.

Il 40% delle emissioni cinese è imputabile a produzioni di beni esportati soprattutto verso Europa e Stati Uniti

Esemplari due casi. Primo: quello della Cina ove si è stimato che il 40% delle emissioni, divenute dal 2006 prime al mondo superando quelle degli Stati Uniti, sia imputabile a produzioni di beni esportati soprattutto verso Europa e Stati Uniti.

Secondo: quello della Gran Bretagna che tra 1990 e 2005 ha ridotto la produzione interna di carbonio del 15% – vantandosi di aver ottemperato ai vincoli di Kyoto – mentre se si fosse conteggiato il carbonio a livello di consumo le avrebbe aumentate del 19%, causando, in altre parole, un aumento nelle emissioni globali (come riportato da Dieter Helm nel suo volume del 2012 The carbon crunch, pag. 69) .

La questione climatica globale ha un significato del tutto relativo porre attenzioni solo alle dinamiche emissive a livello nazionale

 I dati vengono ora aggiornati dall’Istat inglese che è giunta a queste conclusioni:
(a) se si tiene conto delle emissioni incorporate nei beni importati il loro picco in Gran Bretagna non è stato raggiunto, come si riteneva, nel 1972 ma 35 anni dopo: nel 2007;
(b) le maggiori provenienze di queste emissioni ‘importate’ sono la Cina seguita dall’Unione Europea;
(c) la riduzione interna delle emissioni è ascrivibile alla mutata struttura dell’economia, alla minor produzione interna, alle politiche climatiche, alle azioni di efficientamento.

Quali conclusioni trarre dal contributo del ONS inglese? Primo: che essendo la questione climatica globale ha un significato del tutto relativo porre attenzioni solo alle dinamiche emissive a livello nazionale. Secondo: che sarebbe utile ed opportuno che Eurostat adottasse la metodologia dell’ONS per valutare quale sia stata l’effettiva dinamica delle emissioni europee: sia prodotte che importate.

Terzo: che sarebbe il caso di spostare la rilevazione delle emissioni dalla produzione al consumo dei beni, prendendo in considerazione, ad esempio, la proposta che Agime Gerbeti e Fabio Catino hanno avanzato su Energia 2.19 di “valorizzare sull’IVA le reali e puntualmente contabilizzate emissioni di CO2 prodotte durante la fabbricazione dei beni (…) e attribuire nel mercato di destinazione, europeo, tale aggravio a prescindere da dove il bene è stato prodotto”. Quel che richiede un complesso sistema di tracciamento delle emissioni dei beni, ma che secondo gli autori può trovare soluzione grazie all’applicazione della tecnologia blockchain.

Alberto Clô è direttore della rivista Energia

Sul tema carbon leakage leggi anche:
Carbon leakage: l’UE, il clima e il gioco delle tre carte, di Alberto Clô, 8 Ottobre 2018
Carbontax o ETS? Meglio valorizzare sull’IVA le emissioni, di Redazione, 12 Settembre 2019
La blockchain per tracciare le emissioni industriali (e tutelare la competitività europea) di Redazione, 20 Giugno 2019

Foto: Pixabay

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