La presidente della nuova Commissione Europea, Ursula von der Leyen, vuole emanare in 100 giorni un European Green Deal che renda l’Europa carbon-neutral entro il 2050: a parte che a decidere saranno Consiglio e Parlamento e che nel 2050 il peso delle emissioni europee su quelle globali sarà insignificante, l’obiettivo è del tutto irrealistico...
Nel bellissimo libro “Vivere con l’incertezza” del 1986 (edizione il Mulino), Hans Landsberg e altri studiosi di Resources for the Future scrivevano argutamente che “Nell’energia spararla grossa non costa nulla, ma fa fare bella figura”.
Frase che mi è tornata in mente leggendo dell’intenzione di Ursula von der Leyen presidente della nuova Commissione Europea di voler emanare nei suoi primi 100 giorni di mandato un “European Green Deal” in grado di fare dell’Europa il primo continente carbon-neutral entro il 2050. Capace, in sostanza, di non accrescere le emissioni nette di anidride carbonica in atmosfera, evitando in tal modo di aumentarne la concentrazione.
A parte il fatto che a decidere dovranno essere il Consiglio e il Parlamento Europeo (che già hanno respinto una simile idea) e che nel 2050 il peso delle emissioni europee su quelle globali sarà del tutto insignificante (oggi è al 10%), l’obiettivo è del tutto irrealistico.
Raggiungere in 100 giorni il consenso su un tema così grandioso è irrealistico, in primis per le profonde diversità economiche, sociali, energetiche che separano l’Europa ricca da quella povera
Anche se diversi altri paesi europei per effetto imitazione stanno facendo proprie l’intenzione della nuova Presidente della Commissione. L’obiettivo è irrealistico per molte ragioni, ma una su tutte: le profonde diversità economiche, sociali, energetiche che separano l’Europa ricca da quella povera.
La maggior parte dei paesi dell’Est dispone infatti di un reddito pro-capite (dati Eurostat a parità potere di acquisto) inferiore sino al 50% a quello medio europeo.
È essenzialmente per l’opposizione di alcuni paesi dell’Est che il Consiglio Europeo di Bruxelles respinse il giugno scorso la proposta di neutralità carbonica al 2050 presentata dalla Commissione e fortemente supportata da Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Svezia, Spagna.
Il livello di benessere è la variabile dirimente nella diversità di posizioni degli Stati europei sulla politica climatica
Da allora, il numero di paesi favorevoli si è allargato, a partire dall’Italia, e bisognerà aspettare i prossimi Consigli per vedere se verrà raggiunta l’unanimità dei consensi.
Il livello di benessere è la variabile dirimente nella diversità di posizioni degli Stati europei sulla politica climatica. Non è un caso che, secondo un survey di aprile della Commissione, nei paesi a maggior reddito le opinioni pubbliche attribuiscano ai cambiamenti climatici un’importanza nettamente superiore a quella nei paesi a minor reddito, che pongono la crescita economica davanti ad ogni altra esigenza (anche se per tutti i paesi l’immigrazione resta di gran lunga la questione più avvertita dalle popolazioni).
Per la sola Gran Bretagna il conto sarebbe superiore a 1 trilione di sterline
La neutralità carbonica richiede denaro, molto denaro. Per la Gran Bretagna – primo grande paese che si è dato un obiettivo legalmente vincolante di zero-carbon di emissioni al 2050 – si stima che raggiungerla costerà l’1%-2% del prodotto interno lordo ogni anno da qui a metà secolo. Sebbene sia stato evidenziato come tale cifra sia la medesima stimata nel 2008 per raggiungere un taglio delle emissioni dell’80%, in termini assoluti si tratta pur sempre di 50 miliardi di sterline all’anno, che altre autorevoli fonti portano a 70 mld £/a per un ammontare totale monstre di oltre 1 trilione di sterline.
Per i paesi a minor reddito con una intensità energetica sino a quattro volte la media europea e molto più elevate emissioni, il costo sarà ancor più salato per più ragioni: un parco auto vecchio con un’età media sino a 17 anni contro la media europea di 10 anni; consumi domestici unitari di gran lunga superiori a quelli medi europei, con redditi delle famiglie poco in grado di migliorarli.
Ma la solidarietà non è di casa in Europa
Che i governi di questi paesi impegnino denaro per l’obiettivo zero–carbon sarebbe poco accetto dagli elettori, mentre quelli dei paesi ricchi si opporrebbero certamente ad impegnare loro denari per alimentare un fondo per sussidiare la transizione energetica di altri paesi. La solidarietà non è di casa in Europa.
Morale: qualsiasi “green deal” che si voglia proporre dovrà tener conto della capacità di spesa di ogni paese, della loro situazioni di partenza, condizioni socio-economiche, energetiche, ambientali.
Si scorrano, per farsene un’idea, le statistiche annuali della pubblicazione Eurostat “Energy, transport and environment indicators” e si vedrebbero le straordinarie differenze che corrono tra i paesi membri dell’Unione Europea.
Parlarne come fosse un tutt’uno è privo di ogni senso. Così come lo è fissare obiettivi specifici eguali per tutti ovvero obiettivi globali ove i paesi ricchi sopperiscano ai limiti di quelli a minor reddito.
Che i paesi ricchi guardino primariamente ai loro interessi – in primis la Germania non solo col carbone – mentre lo stesso non debba essere per quelli a minor reddito, non è l’ultima delle ragioni alla base della dis-unione europea.
Che l’European Green Deal possa essere disegnato tenendo conto di tutto ciò è un auspicio che richiederà molto tempo e serrati negoziati. Farlo in 100 giorni è del tutto impossibile, ma spararla grossa fa fare una gran bella figura. A criticare invece si fa la parte dei gufi.
Alberto Clô è direttore della rivista Energia
Foto: PxHere
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