Con decoupling si intende il disaccoppiamento della crescita economica dalle emissioni di carbonio. Per organizzazioni internazionali e l’Unione europea è un passaggio fondamentale della transizione ecologica. Se ne parla dal 2001 quando l’OCSE l’incluse tra i principali obiettivi di strategia ambientale, ma di cosa si tratta?
Con decoupling si intende la de-correlazione tra emissioni di CO2 e crescita del PIL, che si realizza quando il valore economico si associa al miglioramento dell’efficienza energetica e/o alla decarbonizzazione del mix energetico.
È importante distinguere tra decoupling relativo e assoluto: mentre il primo si riferisce al rallentamento della crescita delle emissioni di CO2 rispetto alla crescita economica, il secondo si riferisce alla riduzione dell’impatto ambientale a fronte dell’aumento del PIL.
Nel decoupling relativo, emissioni ed economia seguono la medesima tendenza (crescita o calo) ma con tassi differenti, mentre quello assoluto implica due andamenti opposti (uno cresce, l’altro cala) e molti lo reputano impossibile
Il disaccoppiamento relativo è una realtà già osservata nell’area OCSE e riflette in particolare gli incrementi di efficienza nella produzione di energia e nel settore manifatturiero resi possibili dall’innovazione tecnologica. Il secondo, invece, è un concetto accolto con maggior scetticismo, tanto che diversi economisti lo considerano impossibile.
QUATTRO DECOUPLING
(1) Decoupling economia/benessere: disaccoppiamento di crescita economica e sviluppo umano attraverso la concezione e utilizzo di nuovi indicatori di sviluppo
(2) Decoupling economia/risorse naturali: disaccoppiamento di crescita economica e uso di risorse naturali attraverso l’aumento della produttività dei materiali
(3) Decoupling economia/impatto ambientale: i salari e l’occupazione aumentano quando si riduce il degrado ambientale attraverso l’aumento lo sviluppo dell’economia verde
(4) Decoupling benessere/impatto ambientale: il benessere aumenta quando si riduce il degrado ambientale
Secondo l’International Energy Agency, fatta 100 la base, tra il 2000 e il 2017 il PIL pro capite nell’Unione europea a parità di potere d’acquisto è aumentato di 23 punti, mentre le emissioni di CO2 sono diminuite di 15 punti. Questo rapporto si ritrova, pur se meno marcatamente, negli Stati Uniti e più in generale nell’area OCSE. La tendenza è inversa, invece, in Medio Oriente, dove nello stesso periodo l’impronta carbonica è aumentata di 103 punti a fronte di un aumento di appena 26 punti del PIL pro capite.
Nell’Unione europea la crescita economica dal 1990 ha avuto un ritmo più veloce della crescita delle emissioni di gas serra
A livello globale, dal 2013 le emissioni di CO2 sono aumentate un po’ meno rapidamente della crescita economica, ma questa tendenza non è abbastanza forte da contrastare i cambiamenti climatici. La correlazione tra attività economica e impatto emissivo rimane di fatto elevata, come emerge dai dati del 2008, quando la crisi economica ha ridotto brutalmente la domanda globale di energia e quindi le emissioni di CO2. Analogamente, le proiezioni IEA indicano che la domanda di energia crescerà del 50% entro il 2040, soprattutto in ragione dell’aumento delle esigenze di condizionamento dell’aria, in particolare nelle città e nei paesi emergenti.
Proseguire lungo questa tendenza di decoupling relativo richiede un massiccio dispiegamento di energie pulite, l’abbandono delle fonti più inquinanti e un costante aumento dell’efficienza sia del settore produttivo che, segnatamente, nella produzione di energia.
A livello globale, dal 2013 le emissioni di CO2 sono aumentate un po’ meno rapidamente della crescita economica, ma questa tendenza non è abbastanza forte da placare le preoccupazioni
A questo scenario si potrebbe rispondere con il Rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) del 2011, che presenta tre scenari di evoluzione dell’intensità energetica dei consumi mondiali. Tra questi, il terzo scenario presuppone una “forte contrazione delle emissioni di CO2 nei paesi sviluppati, che convergono verso altri paesi”, la riduzione da parte dei paesi industrializzati del loro consumo pro capite e il mantenimento del “livello di consumo di altri paesi ai loro livelli attuali”, per un consumo medio di 6 tonnellate di CO2 per abitante.
In realtà, il Rapporto rileva che tale scenario comporta così tante restrizioni che “difficilmente può essere visto come un potenziale obiettivo strategico”. Inoltre, al di là della sua difficile applicabilità politica, lo scenario manterrebbe un livello di emissioni di CO2 troppo elevato per registrare uno spostamento soddisfacente nella curva globale della CO2. Anche il decoupling relativo più marcato tra crescita del PIL e impatto ambientale quindi potrebbe non essere sufficiente per rispettare gli impegni assunti nell’Accordo di Parigi.
Un grammo di CO2 vale l’altro?
In Unione europea, l’intenzione del nuovo Presidente della Commissione Ursula von der Leyen va verso l’integrazione della sfida ecologica nel sistema economico e politico attuale, prevedendo strumenti di mercato e di fiscalità orientati alla valorizzazione economica delle emissioni di carbonio. Molti ecologisti sostengono però che la valorizzazione economica delle emissioni renda irrilevante in quale parte del mondo vengono emessi/assorbiti i volumi di carbonio, e che la salvaguardia di un ecosistema o di un deposito di carbonio naturale come la Foresta Amazzonica non possa compensare la perdita di un altro ecosistema distante chilometri, in cui si verificano altre interazioni tra diverse specie di vita.
La contabilità del carbonio (carbon accounting) è, infatti, intrinsecamente ancorata alla geografia delle emissioni e degli assorbimenti di CO2. Le misure di compensazione ecologica locale possono essere risolutive quando cautelative e metodiche; lo sono molto meno quando sono pensate a livello di paese o di regione come l’Unione europea. La compensazione ecologica, considerata un mezzo efficace e privilegiato per consolidare l’impronta carbonica (carbon footprint) perché quantificabile, sconta infatti la necessità di considerare intercambiabili gli elementi che compongono un ecosistema, misurando i loro benefici indipendentemente dalla specificità locale in cui sono inseriti.
Il post riprende, d’accordo con l’autrice, alcuni passaggi dell’articolo di Clémence Pèlegrin Écologie ou croissance : faut-il choisir ? pubblicato su Le Grand Continent
Clémence Pèlegrin è direttrice del programma Energie et Environnement del centro studi Groupe d’Etudes Géopolitiques – GEG
Foto: Simone Hutsch / Unsplash
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