28 Dicembre 2019

Bilancio di fine anno

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Fallisce COP25; carbone, petrolio e gas naturale vivono una nuova primavera; eolico e solare stentano a decollare nel loro mercato più grande: la Cina. Morale: la ‘transizione energetica’ verso il dopo-fossili non è affatto dietro l’angolo. Anzi.

Mentre Madrid ha certificato l’ennesimo flop delle Conferenze delle Parti, come avevamo facilmente profetizzato (vedi mio post del 10 dicembre 2019), merita fare il bilancio di fine anno delle dinamiche dei mercati energetici. Che potremmo così sintetizzare: le rinnovabili cominciano a perdere colpi, mentre le fossili vivono una nuova primavera. Morale: la ‘transizione energetica’ verso il dopo-fossili non è affatto dietro l’angolo. Anzi.

Per il carbone il 2019 sarà un anno record sul versante della nuova potenza, la futura produzione. Destinata, a dire dell’Agenzia di Parigi, ad aumentare nel prossimo quinquennio di riflesso all’aumento della domanda di circa 170 milioni di tonnellate (IEA, Coal 2019, Analysis and forecast to 2024).

Cina: back to black

In Asia si è avviata la costruzione o è stata autorizzata una potenza elettrica a carbone di 370 GWe: 2,2 volte quella europea e superiore a quella in costruzione nelle nuove rinnovabili elettriche nel mondo. Trump vorrebbe più carbone, ma glielo impedisce il mercato, mentre la Cina che si era impegnata a ridurlo lo sostiene così come sostiene con lauti sussidi attività estrattive come lo shale gas per rafforzare la competitività delle sue merci.

Quel che è possibile col carbone o lo shale ma non con le rinnovabili. Che, per contro, hanno segnato in Cina pesanti riduzioni, a causa del venir meno degli incentivi e nonostante la sostenuta grid parity.

I nuovi impianti solari in Cina dovrebbero quest’anno più che dimezzarsi a 25 GWe rispetto al picco di 53 GWe del 2017. Sebbene la Cina sia il loro più grande mercato, eolico e solare continuano a rappresentare rispettivamente appena il 5,2% e il 2,5% della generazione elettrica nazionale (YaleEnvironment, Why China’s Renewable Energy Trnsition is Losing Momentum, settembre).

Eolico e solare in Cina: appena il 5,2% e il 2,5% della generazione elettrica totale

Morale: le emissioni in Cina hanno preso ad accelerare la loro crescita, al +4% nella prima metà del 2019, ed è molto difficile possano stabilizzarsi dal 2030 come fissato nei suoi impegni di Parigi.

Sarà pur vero che in Europa le rinnovabili pesano e peseranno molto di più, ma lo è altrettanto il fatto che la potenza elettrica europea è appena un settimo di quella mondiale e sarà un decimo da qui al 2040. Contiamo sempre meno sul piano politico, lo si è visto a Madrid, e su quello energetico, ma ci comportiamo come fossimo i primi.

Gas naturale, risorsa o minaccia?

Gas naturale: a leggere numerosi rapporti – come il Gas for Climate – a Path to 2050 patrocinato dalle majors metanifere, Snam in testa; o quello dell’Agenzia di Parigi – consistenti sono le sue potenzialità di sviluppo, con un previsto aumento della sua domanda da qui al 2024 intorno al 10 per cento, pari in termini assoluti a circa 400 miliardi di metri cubi, e tutte le aree in crescita tranne che l’Europa.

Gas naturale: come ‘bridge’ nella transizione energetica. Al fronte di chi lo esalta, per convinzione o convenienza, si è andato però intensificando quello di chi si oppone, sia all’estero (EWG, Natural Gas Make No Contribution to Climate Protection, settembre 2019) che in Italia con l’accusa di essere inquinante, superfluo, costoso (Poggio, Il metano Non ci da una mano).

E il petrolio?

Dal silenzio che lo circonda parrebbe essere già uscito dai bilanci energetici, mentre è più che mai vivo. E d’altra parte vale rammentare che negli scorsi venti anni il petrolio è aumentato del 30% aggirandosi oggi sui 100 milioni di barili al giorno. Mentre l’Agenzia di Parigi ne proietta previsioni al 2050 tra 60 e 120 milioni di barili al giorno. Una previsione praticamente tra “infinito e meno infinito” che rende ancor più incerta una situazione di per sé già incertissima.

Pur se è innegabile che la domanda di petrolio abbia segnato una qualche flessione nella sua crescita (non già in termini assoluti), legata all’andamento dell’economia più che ai vantati processi di sostituzione, la questione cruciale resta un suo potenziale eccesso di offerta.

Nel continuo tentativo dell’OPEC+ di garantire una stabilità dei prezzi che dall’inizio del 2019 hanno oscillato nella forchetta 60-65 dollari al barile tranne tra metà febbraio-fine maggio con un’oscillazione tra 65 e 75 dollari e il 16 settembre coi 69 dollari il giorno dopo l’attacco alle infrastrutture saudite (ma fu vero attacco?…).

La decisione dei paesi Opec+ di ridurre ulteriormente la produzione di 500 mila bbl/g dal 1° gennaio 2020 (Tab.1) portando a 1,7 la riduzione cumulata da quando si avviò il coordinamento Opec+ potrebbe rafforzare di un qualche gradino i prezzi o evitarne uno slittamento, anche se vi è il timore che sia necessario un taglio ancor maggiore.

Da qui la disponibilità specie dell’Arabia Saudita di farsene carico per altri 0,4 mil. bbl/g portando così a 2,1 mil.bbl/g la complessiva riduzione. Dipenderà, da un lato, dall’evolvere dell’economia internazionale specie e alle tensioni commerciali Stati Uniti-Cina e, dall’altro lato, dalla dinamica dello shale oil americano che comincia a registrare una qualche battuta di arresto, a causa della bancarotta di molti indipendenti.

Riduzione produzione petrolio dal 1 gennaio 2020 (‘000 bbl/g)

2 buone notizie per il petrolio

Le buone notizie per il petrolio più che dal presente riguardano tuttavia il futuro: l’opposto di quel che si continua a propagandare. Di due fatti merita far menzione. Il primo è che le previsioni-scenario dell’Agenzia di Parigi più gli anni passano più vedono il petrolio crescere. Se scorriamo quelle al 2040 formulate dal 2014 sino alle recenti del 2019 vediamo che il consumo atteso di petrolio passa da 4.761 mil.tep (previsione 2014) a 4.921 (previsione 2019): con un aumento di 160 mil.tep. (Tab.2) Non vi è quindi conferma del peak oil demand da molti profetizzato.

Fonte: RiEnergia

La seconda buona notizia è data dal valore che i mercati hanno assegnato ad Aramco il primo giorno di contrattazione della sua IPO: 1900 miliardi di dollari, quasi il doppio di quanto capitalizza Apple (vedi post di Massimo Ponzellini del 12 dicembre 2019). Quel che significa: (a) che i mercati attribuiscono all’old oil industry ancora più valore che alla new industry; (b) che i mercati ritengono che le riserve provate di petrolio saranno in futuro estratte e non affondate.

Va da sé che se questa fosse stata l’aspettativa dei mercati il valore di Aramco sarebbe stato di gran lunga inferiore. Ne consegue che da qui in avanti la politica di Riyad sarà attenta non solo all’impatto che ne deriverà sugli equilibri di mercato ma anche sul valore in borsa della sua società.

La morale è che del petrolio resteremo ostaggi ancora per molto, anche per il fallimento delle politiche climatiche e della transizione energetica al dopo-fossili, come Madrid ha ampiamente certificato.


Alberto Clò è direttore della rivista Energia

Foto: Pexels

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