16 Dicembre 2019

COP 25: il fantasma di Kyoto incombe su Madrid

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Tre cose si dovevano decidere a Madrid: nuovi target, forme ed entità dei trasferimenti finanziari, meccanismi e funzionalità del mercato dei crediti di CO2. E invece nulla, il pantano che pensavamo superato con l’Accordo di Parigi è riemerso più vischioso che mai.

Cosa doveva decidere la COP 25 di Madrid? Essenzialmente tre cose: gettare le basi dei nuovi target che i paesi dovrebbero assumere dal 2020 in poi; definire forme ed entità dei trasferimenti finanziari in favore dei paesi in via di sviluppo per contrastare gli effetti del cambiamento climatico; chiarire meccanismi e funzionalità del mercato dei crediti di anidride carbonica.

Cosa ha deciso la COP 25 di Madrid in merito a tutto ciò? Sostanzialmente nulla, ed è un peccato perché i tre punti citati sono estremamente rilevanti, in particolare il primo, essendo i target di Parigi di gran lunga insufficienti a contenere l’incremento di temperatura entro i 2 gradi centigradi, ancor peggio entro un grado e mezzo.

Era cruciale fissare nuovi target perché quelli attuali sono di gran lunga insufficienti

A Madrid, di colpo, la lancetta del tempo è tornata indietro di venti anni. Basta addentrarsi nei dettagli tecnici del dibattito per vedere come questioni che per anni hanno afflitto il negoziato post-Kyoto sono magicamente tornate in auge.

Temi storici del negoziato che pensavamo essere alle nostre alle spalle – addizionalità, baseline, double counting, carry over degli early credits –  in un sol colpo sono riemersi da un sottobosco negoziale più che mai vivo.

L’Accordo di Parigi si è rivelato solo apparentemente più agile e snello del Protocollo di Kyoto

È come se il fantasma di Kyoto aleggiasse ancora sull’Accordo di Parigi, la cui architettura – è questo il messaggio che Madrid ci consegna – è solo apparentemente più agile e snella del tanto criticato Protocollo di Kyoto. Nella realtà, l’intrigo di regole, procedure, metodologie e norme che aveva condizionato negativamente il Protocollo torna di nuovo a sortire i suoi effetti perversi.

La palude è viscosa e nella sua poltiglia regolatoria il negoziato, come già venti anni fa, si arena. Formalmente questa palude ha un nome: articolo 6 del Paris Rulebook. Lo scorso anno, nella COP 24 di Katowice si era raggiunto un accordo su tale Rulebook – che è una sorta di manuale operativo contenente le regole per l’implementazione del Paris Agreement – eccezion fatta, appunto, per l’articolo 6, la cui discussione era stata rimandata all’anno dopo.

Due settimane di lavori non sono state sufficienti a chiudere il cerchio. In particolare, gli articoli al centro della discussione sono stati:
i) il 6.2, che disciplina gli “internationally traded mitigation outcomes” (ITMO), ovvero gli scambi bilaterali di crediti di carbonio;
ii) il 6.4, che governa il nuovo mercato internazionale dei crediti di carbonio generati sia dal settore pubblico che privato in qualsiasi parte del mondo;
iii) il 6.8, che si riferisce ad azioni di cooperazione a favore del clima che non implichino scambi commerciali (es. aiuti allo sviluppo).

L’Accordo di Parigi puntava a una riduzione complessiva delle emissioni, ma per questo serve una revisione del meccanismo di scambio di crediti che continua ad essere rimandata

Di fatto, gli articoli 6.2 e 6.4 sono un’evoluzione di ciò che nel Protocollo di Kyoto andava, rispettivamente, sotto il nome di international emissions trading e clean development mechanism (CDM). Cambiano i nomi, permangono i problemi: come assicurare la riduzione complessiva delle emissioni (“overall mitigation in global emissions”, OMGE) tanto cara al Paris Agreement, se i paesi che hanno abbattuto più emissioni del previsto possono vendere tali crediti a quelli che hanno abbattuto di meno?

Secondo alcuni paesi – ad esempio l’alleanza delle piccole isole – almeno una parte di tali crediti dovrebbe essere cancellata, onde evitare fenomeni di compensazione delle emissioni da un’area all’altra che non portano a una riduzione complessiva del carbonio emesso.

Lo stesso problema si pone per i crediti di cui all’articolo 6.4. Rispetto a Kyoto il quadro è complicato dal fatto che, nell’Accordo di Parigi, gli obiettivi dei paesi sono eterogenei e non sempre facilmente misurabili, e ciò amplifica la complessità del calcolo di tali crediti e del loro trasferimento.

Alle istanze dell’alleanza delle piccole isole si sono contrapposti paesi come Australia e Brasile

Lo spettro di Kyoto è tornato anche nella discussione circa il destino dei crediti di carbonio generati nell’ambito dei meccanismi di Kyoto: si possono utilizzare dopo il 2020, ovvero nell’ambito del Paris Agreement, oppure vanno cancellati? In toto, in parte?

Ha ragione l’Australia a sostenere che sono utilizzabili? Oppure hanno ragione le associazioni ambientaliste quando affermano che il trasferimento dei crediti dal Kyoto Protocol al Paris Agreement depotenzierebbe in misura considerevole la cosiddetta “global ambition” del secondo?

E che dire dell’insistenza con la quale il Brasile si è opposto a qualsiasi revisione dei target da parte di quei paesi che generano crediti di carbonio e poi li vendono all’estero? Non stornarli dal budget delle emissioni del paese che li genera e vendere equivarrebbe a un double counting. Ma su questo il Brasile è stato irremovibile, contribuendo in misura sensibile al fallimento del negoziato.

Non tediamo oltre il lettore con aspetti burocratici. Al di là degli insuccessi tecnici delle COP, sono i numeri nella loro perentorietà ad evidenziare il fallimento del processo negoziale: nei 25 anni di negoziazione dalla COP 1 di Berlino alla COP 25 di Madrid, le emissioni di anidride carbonica sono sempre aumentate, se si fa eccezione per i due anni successivi alla crisi economica fortissima del 2008 e per i 3 anni di stasi dal 2014 a 2016.

Dunque, oltre lo stop and go delle negoziazioni, il loro languire nelle sabbie mobili di una burocrazia laboriosamente sterile, vi è l’evidenza inconfutabile dei dati che mostrano come il negoziato non funzioni.

Certo, una diversa architettura gioverebbe: se intorno al tavolo sedessero non 200 ma 20 paesi il dialogo sarebbe più fluido. Ma nulla assicura che si raggiungerebbe un accordo. Basti considerare la distanza tra le posizioni di Europa, Stati Uniti e Cina – rispettivamente, tagliamo la CO2, non tagliamo la CO2, forse stabilizziamo la CO2 – per avere chiara rappresentazione delle strutturali divisioni tra le parti.

L’Accordo di Parigi è stato un sontuoso autoinganno del genere umano, una carambola pirotecnica per consentire un grande “tana liberi tutti”

Il nodo del negoziato è gordiano e il tentativo di scioglierlo, fino a oggi, non ha fatto altro che ingarbugliarlo. Ci si era illusi, a Parigi, di risolvere l’equazione impossibile dell’accordo climatico, ma a distanza di quattro anni si è visto che quell’agreement non era altro che un sontuoso autoinganno del genere umano, una carambola pirotecnica che – eliminando qualsiasi vincolo legale all’accordo e lasciando ai paesi libertà nella definizione dei propri target – in realtà non è stato che un grande “tana liberi tutti”, per usare il linguaggio senza fronzoli dei bambini.

E bambini, in fondo, rimangono gli Stati di fronte all’emergenza climatica. Con gravità e aria d’importanza negoziano decisioni più grandi di loro, delle quali, in ultimo, non sono all’altezza. E così disquisiscono, dibattono, simulano decisioni che non prenderanno mai, perché esse sono al di là della tonalità del tempo presente.

Non ci spingiamo ad affermare che vi sia un deficit morale nelle presenti generazioni, anche se la valenza etica della questione ambientale è innegabile. Rimaniamo semplicemente sull’inequivocabile dato tecnico. Nessuna gru negoziale, fino ad oggi, è stata in grado di rimuovere i due macigni appoggiati sulla strada dell’accordo climatico: gli interessi ortogonali dei paesi, la necessità di una trasformazione supersonica di un’economia carbonica tanto fiorente quanto incompatibile con i limiti ecologici del pianeta. I due blocchi rimangono là, sul tragitto di qualsiasi accordo negoziale che, una volta raggiunto, si rivela per ciò che è: uno pseudo-accordo, una finzione, un giocattolo per fanciulli.

Forse qualcosa cambierà quando la generazione presente avvertirà il “senso di panico” per lo stato d’emergenza, solo la paura può indurre all’azione

L’impasse sistemica delle COP, solo in superficie smentita da accordi apparenti, è confermata dal dato incontrovertibile delle emissioni crescenti. Questo è lo stato dell’arte. E rimarrà tale finché la generazione presente non avvertirà il senso di emergenza. Per usare le parole di Greta Thunberg, forse le più efficaci pronunciate da questa ragazza alla COP di Madrid, non c’è “un senso di panico di fronte al fatto che la scienza dice che ci sono solo otto anni per intervenire”.

Solo la paura può indurre all’azione, e oggi essa non c’è, e non c’è perché la catastrofe climatica è evento futuro, prospettico, non immediato. Non solo, essa non coinvolgerà coloro che oggi prendono le decisioni ma i loro discendenti. Di qui la stasi, l’inazione, il rimandare, il negoziato vano, il fallimento.

Per superare l’impasse basterebbero tre diverse carbon tax: per paesi ricchi, per quelli poveri, per quelli emergenti

E dire che il nodo gordiano del negoziato potrebbe facilmente essere risolto da una diversa architettura che si concentrasse più che sugli obiettivi sullo strumento. Sarebbe sufficiente, ad esempio, accordarsi su una carbon tax – declinata per gruppi di paesi – per prosciugare alla radice la palude regolatoria che affligge le COP.

Tre numeri semplici che indichino il prezzo di una tonnellata di carbonio da applicare nei paesi ricchi, in quelli poveri e in quelli emergenti. Ma questo non verrà fatto, perché non è questo che gli umani vogliono: più che il coraggio, manca loro la paura.

Di qui lo sciabordare inesauribile delle parole, il negoziare a oltranza, l’operoso nulla del burocratico agire, il suo attivismo rigoglioso e vuoto: cifra essenziale del tempo presente.


Enzo Di Giulio è membro del Comitato Scientifico di «Energia»

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Foto: Pxhere

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