Le emissioni mondiali crescono e nessun negoziato è in grado di fermarle. Perché ciò accade? La politica può riuscire a trasformare l’economia? La decarbonizzazione dell’economia mondiale è un passo lungo, l’azione richiesta è radicale e rivoluzionaria
C’è un ciclo del carbonio – che non è quello fisico – che comincia a dicembre e finisce a dicembre. Ogni dicembre una Conferenza delle Parti (COP) dà l’avvio a tale ciclo gettando i semi di strategie, azioni, decisioni finanziarie che dovrebbero ridurre le emissioni di carbonio. Sempre a dicembre, ma l’anno dopo, si fa il bilancio delle emissioni, e si verifica l’efficacia di quelle decisioni. Il ciclo va avanti da 25 anni, ovvero da quando nel 1995 gli Stati si sono riuniti a Berlino nella COP 1, fino ad arrivare alla odierna COP 25 di Madrid. Ora, in questi cinque lustri, se si fa eccezione per un paio di anni dopo il 2008 – nei quali le emissioni decrescono come effetto di una crisi economica pesantissima – e per i tre anni di stabilità 2014-2016, il confronto tra COP e CO2 vede la prima nettamente perdente: le emissioni mondiali aumentano sempre. Il lungo arco di tempo – un quarto di secolo – e la nettezza del risultato autorizzano una conclusione senza appello: il processo non sta funzionando.
Dopo 25 anni di COP il risultato è chiaro: il processo non sta funzionando
Emissioni battono negoziato 6-0, per essere clementi. L’anno in corso non fa eccezione. I recenti dati pubblicati da Global Carbon Project (GCP) stimano una crescita delle emissioni nel 2019 pari allo 0,6%. Il dato è migliore di quello del 2018 (+2,1%) e del 2017 (1,5%), ma ancora negativo poiché non emerge quella riduzione del carbonio emesso che dovrebbe essere l’esito dell’Accordo di Parigi. Piuttosto, dalla sua firma nel 2015, le emissioni sono cresciute del 4%. Una sintesi efficace dell’analisi di GCP è proposta nelle due figure che seguono.
A livello di paesi, si può vedere come le uniche aree nelle quali le emissioni siano scese sono l’Europa (–0,05 miliardi di tonnellate CO2) e gli Stati Uniti (–0,09). In India, la CO2 sale di 0,04 mld ton., in Cina di 0,26 e nel resto del mondo di 0,08. È interessante notare come la grande spinta alla crescita delle emissioni sia venuta della Cina, mentre la maggiore riduzione sia venuta proprio dal paese che si è ritirato dell’Accordo di Parigi, gli Stati Uniti. E ciò è un indizio dell’autonomia dell’economia – che genera le emissioni – dalla politica, che vorrebbe controllarle. In parole povere, l’economia non è una variabile dipendente dalla politica.
La maggiore riduzione di emissioni di CO2 nel 2019 si è registrata nel paese ritiratosi dell’Accordo di Parigi, gli Stati Uniti: l’economia ha un andamento autonomo e indipendente dalla politica
Il grafico seguente mostra le variazioni delle emissioni per fonte di energia. Le minori emissioni generate dal consumo di carbone (–0,13 mld ton. CO2) sono più che compensate dalle altre fonti, in particolare il gas naturale (+0,20). Secondo i ricercatori di Global Carbon Project, anche se le emissioni sono cresciute meno dello scorso anno, “a further rise in emissions in 2020 is likely”, principalmente a causa della crescita dei consumi di gas e petrolio. In altri termini, dalla bassa crescita di quest’anno non si può evincere un approssimarsi del picco del carbonio.
D’altra parte, già con il famoso plateau delle emissioni del periodo 2014-2016 ci sembrava di essere vicini al carbon peak, per poi dover registrare un balzo delle emissioni del 2,1% nel 2018. Inoltre, il minor controllo che l’amministrazione centrale cinese sta ponendo sul ricorso al carbone a livello provinciale rafforza l’ipotesi di una futura espansione della CO2. Altro aspetto interessante è quello relativo alle emissioni pro-capite, che sono lievemente decrescenti dal 2012, segno che la spinta demografica rappresenta una variabile molto importante.
Il negoziato internazionale non riesce a governare la cloche dell’aereo perché gli attori del negoziato, gli Stati, non dominano le innumerevoli spinte che determinano la rotta del velivolo
Dunque, a livello mondiale le emissioni crescono e il negoziato non è in grado di fermarle. Perché accade? Una risposta secca, ancorché non esaustiva, è che nella realtà nessuno pilota l’aereo. Il processo di generazione delle emissioni è bottom-up, ovvero è l’esito di una pluralità di azioni da parte di una miriade di operatori – aziende, consumatori, pubbliche amministrazioni – non controllabili dall’alto. Il negoziato internazionale non riesce in alcun modo a prendere il comando della cloche dell’aereo perché gli Stati, che sono gli attori del negoziato, non dominano le innumerevoli spinte che determinano la rotta del velivolo.
Perché non le dominano? Perché è tecnicamente difficile farlo, perché è doloroso e perché non lo vogliono fare fino in fondo. Più la seconda e la terza ipotesi che la prima, ad essere onesti, perché nei 25 anni di negoziato la conoscenza delle policy ha fatto considerevoli passi avanti e si sa, ad esempio, che una carbon tax pari a 75 doll/ton. CO2 – per citare l’ultima proposta del Fondo Monetario Internazionale – introdotta entro il 2030 consentirebbe di contenere la crescita della temperatura entro i 2°C.
Una carbon tax di 75 doll/ton. CO2 entro il 2030 consentirebbe di contenere la crescita della temperatura entro i 2°C. Ma quale Stato ha il coraggio di farlo?
Ma quale Stato, Svezia o Svizzera a parte, ha il coraggio di farlo? O meglio: quale politico imposterebbe la propria campagna elettorale su una carbon tax del genere, quando oggi il valore medio mondiale della carbon tax è 2 doll/ton. CO2? Oppure, ancora: può un’economia intrinsecamente carbonica generare un’azione non carbonica che, nel giro di poche decadi, distrugge in toto la sua genitrice? Può un paradigma industriale potente e vigoroso decretare di punto in bianco la sua eutanasia? Ne dubitiamo: ecco perché – conclusa la vorticosa melina delle COP – la cloche dell’aereo rimane saldamente nelle mani, invisibili ma potentissime, degli animal spirits.
Si potrebbe dire che, in ultimo, gli animal spirits e l’economia sono più forti dell’idea e della politica. Si torna alla città di Treviri e al suo figlio barbuto e rivoluzionario. C’è poco da fare: quella storia ottocentesca della struttura (l’economia) che determina la sovrastruttura (la politica) ha ancora un suo contenuto di verità, difficilmente scalfibile. Un’economia carbonica può al massimo generare l’idea di un’inversione di rotta di 180 gradi, e dibatterla – come accade nelle COP – approfondirla, pubblicizzarla e anche compiere qualche timido passo verso la sua realizzazione. Ma dall’idea alla sua trasformazione in azione totale, il passo è lungo e lo spazio incolmabile, soprattutto quando l’azione richiesta è radicale e rivoluzionaria, e lo scenario nel quale tale rivoluzione dovrebbe compiersi non è un singolo stato o un gruppo ristretto di nazioni, ma il mondo.
C’è poco da fare: quella storia ottocentesca della struttura (l’economia) che determina la sovrastruttura (la politica) ha ancora un suo contenuto di verità, difficilmente scalfibile
Solo quando i rapporti di forza, all’interno della stessa economia, saranno sbilanciati a favore delle fonti low carbon, sarà possibile assistere ad azioni vigorose che porteranno il sistema verso la sua decarbonizzazione totale. Tuttavia, solo apparentemente quelle azioni proverranno dalla politica, poiché in realtà esse saranno eterodirette, ossia saranno generate da una struttura economica rinnovata che ha maturato, al suo stesso interno, la volontà e la forza di cambiare. Ma quel tempo – speriamo di sbagliarci – sembra essere lontano.
Per concludere con un linguaggio più al passo con i tempi, potremmo dire che solo il business può cambiare il business. La sostanza, però, non cambia: la carbon tax può attendere.
Enzo Di Giulio è membro del Comitato Scientifico di «Energia»
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Foto: KollegeMostrich / Pixabay
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