Come la comunicazione ha affrontato nel tempo il tema dei cambiamenti climatici? In che modo ha influenzato la percezione della collettività? Alberto Clô che indaga questo complesso rapporto su Energia 4.19 ritiene che la comunicazione climatica sia dominata dal dualismo tra ottimismo di maniera, che dipinge le cose meglio di quel che sono, e catastrofismo, che trascura i miglioramenti che pure nel tempo si sono osservati. Quel che non di rado la porta ad amplificare in modo distorto i risultati della ricerca scientifica o a mancare di evidenziare gli elementi di incertezza che sono intrinseci in questo ambito
Il dibattito sui cambiamenti climatici e su come contrastarli è diventato nel tempo sempre più polarizzato e politicizzato. Secondo il direttore di Energia, che prende in esame il tema nell’ultimo numero, un ruolo essenziale lo gioca “Il variegato mondo dei «giornalisti climatici»” che, seguendo i vari Summit internazionali (“alla COP 21 di Parigi ne erano accreditati 6.000”), riportando le conclusioni dei rapporti IPCC, decidendo chi intervistare o citare come voce autorevole o commentando le cause degli eventi estremi, è divenuto presso il grande pubblico “il primo interlocutore della questione climatica, intermediario della scienza”.
La narrazione ha il potere di plasmare le credenze, evocare emozioni, richiamare i valori – Frederick W. Mayer
“La narrazione che i mass media fanno dei temi ambientali in generale, specie di quelli climatici, è dirimente nella percezione che ne ha l’opinione pubblica”, ma le storie narrate rischiano spesso di risultare ambivalenti “oscillando tra l’ottimismo di chi nega ogni male o dà ad intendere che possa estirparsi rapidamente e il catastrofismo di chi fa credere che un tempo tutto andasse bene, che uomo e natura fossero in perfetto equilibrio, che l’avvento delle fonti fossili abbia sospinto l’umanità verso il baratro”. Quando invece “la complessità dei temi che attraversano i cambiamenti climatici dovrebbe far sì che rischi e incertezze, in senso spaziale e temporale, siano il caveat di ogni comunicazione che li riguardi, specie in un’ottica prospettica”.
“Così non è, con la più parte della comunicazione che trasuda certezze, verità, sentenze, ignorando i lassi di tempo dei cambiamenti climatici (decenni o secoli), la loro natura multidimensionale, la loro dislocazione geografica (locale, nazionale, globale). Il grande nemico della conoscenza e della scienza non è l’ignoranza, ma l’illusione della certezza (Pedrocchi 2019)”.
La più parte della comunicazione che trasuda certezze, verità, sentenze, ma il grande nemico della conoscenza e della scienza non è l’ignoranza, ma l’illusione della certezza
Un’ambivalenza che non di rado è frutto dell’ignoranza dei comunicatori, ma anche responsabilità della comunità scientifica “che non ha saputo, e non sa, parlare alla società in modo chiaro e oggettivo, lacerata com’è da dogmatismi e faziosità, esprimendosi talora con giudizi moraleggianti su argomenti spesso lontani dalle specifiche competenze di chi ne tratta. Non indicando, come dovrebbe, le criticità e i trade-off di ogni scelta, senza spandere a piene mani illusorie certezze”.
“Il risultato è quello di alimentare conflitti sociali che si creano quando le emozioni prevalgono sulla razionalità rendendo ogni scelta, in qualunque direzione muova, più difficile da perseguire e influenzando la politica verso opzioni politicamente gradite più che tecnologicamente, economicamente, scientificamente fondate. (… ) La scienza climatica sembra voler sempre più allineare i suoi risultati e raccomandazioni a prospettive politiche e ideologiche, così che i dibattiti accademici finiscono per tracimare in dibattiti politici (Pielke 2004)”.
Se la scienza non aiuta è anche perché la politica le ha attribuito compiti che non le appartengono, parandovisi dietro pur di non assumere le proprie responsabilità
“La politica decide sulla base di conoscenze inevitabilmente incerte e parziali che le sono rese disponibili, ma anche dietro la pressione degli interessi organizzati, dell’onda emotiva delle opinioni pubbliche, del pensiero scientifico/politico dominante, con risultati spesso controproducenti. Il senso comune non è detto che coincida col buon senso. Se la scienza non aiuta è anche perché la politica le ha attribuito compiti che non le appartengono, parandovisi dietro pur di non assumere le proprie responsabilità. (…) L’incertezza e l’incalcolabilità che attraversa la conoscenza sui cambiamenti climatici non consente di richiedere alla scienza univocamente intesa obiettivi ultimi certi e fissi”.
A mano a mano che la scienza procede nelle sue ricerche l’unica certezza è che muteranno le sue affermazioni probabilistiche. Più sappiamo, più sappiamo quante cose non conosciamo – Mike Hulme, climatologo
Dopo l’introduzione da cui sono tratti i passaggi citati, il direttore di Energia sviluppa le sue riflessioni lungo due direttrici. La prima è dedicata al rapporto tra Comunicazione e mutabilità della scienza (par. 1), la seconda all’altalenante oscillare della comunicazione tra un “ottimismo di maniera, che porta a credere che la vittoria contro il riscaldamento sia a portata di mano, basta volerlo, e un catastrofismo radicale, che presenta il global warming come l’Armageddon che conduce alla fine di tutti i tempi” (par. 2). L’ultimo paragrafo è invece un appello a non cedere al catastrofismo (par. 3), “perché nel tempo le cose a livello globale sono andate migliorando (…). Pur senza cedere a un ottimismo di maniera siamo dell’avviso che (…) si debba continuare a sperare”. Se non altro per evitare lo “scetticismo corrosivo che mina ogni fiducia sulla capacità di migliorare le cose”.
Il post presenta l’articolo Comunicazione e clima: un rapporto molto complesso (pp. 12-18) di Alberto Clô pubblicato su Energia 4.19
Alberto Clô è direttore della rivista Energia
Foto: Unsplash
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