Che il nucleare giochi un ruolo non secondario nella road map d’abbattimento della CO2 di origine antropica lo riconoscono anche istituzioni degli stessi paesi sviluppati. Eppure sono le economie emergenti a puntare su questa tecnologia, nonostante l’importante contributo che ancora offre al Vecchio Continente anche in termini di occupazione e PIL.
Che il nucleare giochi un ruolo non secondario nell’abbattimento della CO2 e quindi nella road map volta a mitigare o ridurre gli effetti dovuti all’attività umana sui cambiamenti climatici v’è ampio riconoscimento. A partire dalla stessa Agenzia Internazionale per l’Energia che vi ha dedicato un intero rapporto Nuclear Power in a Clean Energy System (2019) dall’esplicito sottotitolo: A key source of low-carbon power. Medesimo il messaggio lanciato dall’International Atomic Energy Agency che ha promosso in ottobre 2019 una conferenza internazionale proprio sul Climate Change and the Role of Nuclear Power.
A livello mondiale l’apporto del nucleare nella generazione elettrica è pari al 10 %. I programmi di costruzione di nuovi reattori nucleari attualmente in corso ammontano a 52 unità per una potenza complessiva di 53 GW.
La Cina punta ad affiancare un impiego massiccio di nucleare all’imponente sviluppo di fonti rinnovabili
Che il nucleare sia una tecnologia chiave nella lotta ai cambiamenti climatici lo dimostra la Cina che, con 48 reattori nucleari in servizio e 9 in costruzione, intende affiancarla all’imponente sviluppo di fonti rinnovabili. L’obiettivo è portare l’attuale 4% di generazione elettrica da fonte nucleare ad un valore superiore al 10 % al 2030 e a quote ancor più ambiziose al 2050 prevedendo l’impiego anche di un nuovo tipo di reattore – l’HTR-PM, reattore raffreddato a gas elio ad alta temperatura – da utilizzare per la produzione di idrogeno e calore. Sta inoltre supportando i programmi nucleari di altri paesi, in particolare in Africa e in Asia con un grande piano di formazione per tecnici e ingegneri da impiegare nel settore.
Non solo Cina, ma anche India, Corea del Sud, Russia e altri paesi con “economie emergenti” puntano sul nucleare e avranno nei prossimi anni il parco reattori più giovane e con obiettivi certificati di vita utile operativa di 60 o anche 80 anni.
Diverso il contesto in Unione Europea, dove il parco reattori è vecchio essendo entrato in esercizio negli anni ‘70 e ‘80 prima che il più grave degli incidenti nucleari (Chernobyl, 1986) portasse ad un sostanziale blocco delle nuove centrali. La nuova Commissione di Bruxelles intende fare dell’Europea il primo continente zero carbon entro il 2050. A parte il fatto che la parola finale spetterà agli Stati, l’obiettivo è di per sé estremamente arduo e ancor più lo sarebbe senza l’apporto del nucleare.
Nel prossimo futuro le economie emergenti avranno il parco reattori più giovane, mentre diversi paesi europei dovranno valutare se e come estendere la licenza di operare delle loro centrali
L’età media dei reattori operativi in UE è di 35 anni e hanno tutti all’origine una vita utile certificata di 40 anni che gli operatori vorrebbero prolungare sino a 60 anni (con quindi ulteriori 20 anni di funzionamento). Un’operazione simile a quella avvenuta negli Stati Uniti dove 89 reattori su 99 operati da 30 differenti compagnie sono stati oggetto di una estensione della licenza di operare per altri 20 anni.
Questo approccio consente di contenere gli investimenti rispetto alla costruzione di nuovi reattori ma comporta una verifica delle “condizioni di salute” dei principali componenti, e in particolare di quelli non sostituibili, come i vessel d’acciaio (recipienti in pressione) che contengono il nocciolo nucleare, generatori di vapore e tubazioni relative.
Naturalmente gli stress test a cui sono sottoposti sono severi e cautelativi ed è proprio questo che si rivela critico. Se cioè questi componenti sono di fatto a fine vita utile allora non resta che procedere alla chiusura della centrale ovvero, in base alle condizioni che vengono dalle risultanze e verifiche eseguite, limitarne l’estensione di vita ad un numero di anni inferiore.
Ad esempio, la Spagna con 7 reattori nucleari e 7,4 GW di potenza installata complessiva ha deciso di limitare la vita degli impianti a 44-47 anni procedendo alla loro chiusura a seconda dell’impianto tra il 2017 e il 2035. La Francia è il paese che si trova più esposto ad affrontare questa criticità avendo una potenza da nucleare lorda esistente di 66 GW con in costruzione solo 2 GW di nuovo nucleare.
Questo problema riguarda anche altri paesi europei quali Regno Unito, Svezia, Svizzera che hanno reattori anch’essi con età vicina ai 40 anni e un’analoga decisione da prendere. La Germania è invece l’unico paese che ha deciso il phase out dei suoi 7 reattori ancora in funzione con potenza complessiva di 9 GW alla scadenza della loro vita utile, ossia entro il 2022.
Abbandonare il nucleare, estendere fin quando possibile la vita utile delle centrali esistenti o proseguire verso nuovi sviluppi?
Per quei paesi UE che non hanno abbandonato il nucleare, oltre ai tradizionali reattori ad acqua leggera di terza generazione già in costruzione (con costi tuttora proibitivi) un possibile sviluppo del nucleare di fissione riguarda le centrali denominate Small Modular Reactors.
Le sue componenti modulari e prefabbricati consentono una riduzione dei costi e dei tempi di costruzione. La potenza di ciascun reattore è dell’ordine di 300 MW e sono caratterizzati da sicurezza intrinseca e alta affidabilità e flessibilità. Si prestano inoltre ad essere inseriti in siti industriali per la produzione di acqua (ad es. impianti di desalinizzazione dell’acqua marina), idrogeno e calore. I primi prototipi sono previsti entrare in servizio entro il 2025. Per una descrizione più dettagliata, rimando a questo mio articolo pubblicato su L’Energia Elettrica.
L’industria nucleare europea attualmente coinvolge più di 1,1 milioni di posti di lavoro e contribuisce al PIL europeo per oltre 500 miliardi di euro; ogni nuovo GW installato da lavoro a 10.000 persone e genera 4,3 mld € per il PIL europeo – Deloitte
Se da un lato il problema dell’accettabilità sociale e una certa comunicazione presenti in alcune delle economie cosiddette avanzate tendono ad escludere il nucleare dalle opzioni tecnologiche adottabili, anche ma non solo, in ottica di contrasto ai cambiamenti climatici, dall’altro vediamo come economie emergenti e istituzioni internazionali degli stessi paesi sviluppati (come la IEA) si muovono o suggeriscono di muoversi in direzione opposta. Un’ambivalenza che chiama in causa in prima istanza l’Unione Europea, che della lotta ai cambiamenti climatici si è sempre fatta promotrice, e quegli Stati membri che si trovano a prendere decisioni cruciali in materia.
Senza trascurare quanto rilevato da un recente rapporto Deloitte commissionato dalla associazione FORATOM: l’industria nucleare europea attualmente coinvolge più di 1,1 milioni di posti di lavoro e contribuisce al PIL europeo per oltre 500 miliardi di euro nel PIL e ogni nuovo GW installato fornisce impiego a 10.000 persone e genera 4,3 miliardi di euro per il PIL europeo.
Massimo Rebolini è presidente di CIGRE Italia e membro onorario CIGRE Parigi
Sul tema nucleare leggi anche:
UE, non c’è transizione senza nucleare,di Massimo Rebolini, 4 Novembre 2019
A scanso di equivoci, di Sergio Carrà, 22 Luglio 2019
Nucleare: chiudere la stalla quando i buoi sono scappati, di Alberto Clô, 12 Giugno 2019
Breve storia del nucleare in Italia: l’esordio, di Redazione, 20 Settembre 2018
Breve storia del nucleare in Italia: l’epilogo, di Redazione, 20 Settembre 2018
Foto: MaxPixel
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