La crisi tra Stati Uniti e Iran non sta avendo, almeno per ora, gravi ripercussioni sul fronte del petrolio (appena +4%). I mercati non paiono più di tanto preoccupati dei rischi di un’escalation bellica nella regione, ma il mancato effetto panico non deve portare ad abbassare la guardia. Soprattutto l’Unione Europea che dalle forniture mediorientali è fortemente dipendente.
Il raid militare americano a Baghdad del 3 gennaio che ha ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani non ha avuto, almeno per ora, gravi ripercussioni sul fronte del petrolio con prezzi aumentati, per il greggio Brent, dai 66,25 doll/bbl del 2 gennaio ai 68,91 del 6 gennaio (+4%) per poi flettere a 68,43 all’inizio della seduta del 7 gennaio. Segno che i mercati non paiono più di tanto preoccupati dei rischi di una non escludibile escalation bellica nella regione.
È presumibile per tre ordini di motivazioni. Primo: per la grande abbondanza d’offerta e parallela depressione dei prezzi dalla seconda metà del 2019, che ha spinto il 6 dicembre scorso i paesi Opec e non-Opec (guidati dalla Russia) a ridurre ulteriormente la loro produzione di 0,5 mil.bbl/g portando a 1,7 mil.bbl/g il complessivo calo a suo tempo deciso, con l’Arabia Saudita disponibile ad un taglio aggiuntivo di 0,4 mil.bbl/g.
3 ordini di ragioni spiegano il mancato “effetto panico”, ma sarebbe errato abbassare la guardia
Secondo: per la rallentata crescita della domanda globale di petrolio stimata per quest’anno in 1,1 mil.bbl/g (contro media annua +1,4 mil.bbl/g nello scorso decennio) causata da una minor crescita delle economie avanzate più che dai processi di sostituzione del petrolio o di efficientamento energetico. Molto dipenderà dalla preannunciata firma dell’accordo tra Washington e Pechino sull’allentamento o la fine della guerra dei dazi.
Terzo: per l’elevata capacità inutilizzata di petrolio detenuta dall’Arabia Saudita, sicuramente pronta a neutralizzare gli effetti di un’eventuale reazione di Teheran che impatti sull’offerta di petrolio. Vale per altro rammentare come le esportazioni iraniane si siano quasi azzerate a seguito delle sanzioni americane passando dai 2,6 mil.bbl/g dell’aprile 2018 (il mese prima della denuncia dell’accordo nucleare da parte di Donald Trump) ai 0,3 di fine 2019, con un parallelo tracollo dell’economia nazionale del 40%.
Il sollievo per la contenuta reazione nell’immediato del mercato del petrolio al raid del 3 gennaio non può tuttavia celare le ragioni di preoccupazione su quel che potrebbe accadere nel medio-lungo. Come già evidenziammo dopo l’attacco il 14 settembre 2019 di dieci droni alle infrastrutture petrolifere dell’Arabia Saudita che causarono un immediato calo della sua produzione di 5,7 mil. bbl/g. Attacco che secondo la Casa Bianca sarebbe stato ideato e condotto proprio dall’Iran e non dai ribelli Houthi yemeniti.
Anche allora i mercati ebbero una limitata reazione con un immediato
balzo dei prezzi (da 60 a 69 doll/bbl) rientrati in due settimane sotto i
livelli di partenza. Come allora riteniamo che le cose siano tutt’altro che a
posto. Per le medesime ragioni:
primo: perché il petrolio, checché se
ne dica, resta e resterà ancora per molto, per almeno una generazione, pivot
del sistema energetico mondiale (si guardino gli scenari dell’Agenzia di
Parigi);
secondo: perché all’offerta mondiale
dovrà contribuire sempre più il petrolio del Medio Oriente detentore del 48%
delle riserve mondiali (17% in Arabia Saudita, 9% in Iran, 8,5% in Iraq))
contro una sua offerta corrente del 33% di quella mondiale;
terzo: perché dalla Primavera Araba
del 2011 investire in Medio Oriente è divenuto sempre più rischioso e costoso.
Quel che ha contribuito a ridurre la già bassa propensione ad investire delle oil majors occidentali motivata anche dallo spettro della ‘transizione energetica’ al dopo-fossili. Alcune imprese europee, tra cui Eni, hanno rafforzato la loro presenza in Medio Oriente, ma le maggiori hanno ridotto fortemente il loro impegno.
Più che al miraggio della carbon neutrality al 2050, l’Europa farebbe meglio a prestare attenzione al prossimo futuro visto che il petrolio pesa ancora il 38% del suo fabbisogno energetico
Che di tutto ciò poco si curino gli Stati che più necessitano o necessiteranno delle importazioni di petrolio, a iniziare dall’Europa (15,1 mil.bbl/g), non è di alcun conforto, ma segno semmai della sua irresponsabilità.
Più che guardare al miraggio della carbon neutrality nel 2050, sarebbe meglio che l’Europa prestasse attenzione a quel che potrebbe accadere nel prossimo futuro sia nello scacchiere medio-orientale in reazione all’azzardato intervento americano che in quello nord-africano per il precipitare della guerra libica.
Quale strategia della Commissione von der Leyen di fronte al non escludibile precipitare delle cose?
Con una domanda stabile di petrolio, che ancora pesa per il 38% dei consumi energetici, una produzione interna in progressivo calo, importazioni in parallela crescita, ed un peso politico internazionale irrilevante, sarebbe utile e interessante sapere quale strategia energetica metterebbe in campo la sinora silente e disattenta Commissione europea di Ursula von der Leyen di fronte al non escludibile precipitare delle cose.
Si pensi ad esempio agli effetti disastrosi che seguirebbero ad un blocco dei traffici marittimi nello Stretto di Hormuz, da cui transita un quinto del consumo mondiale di petrolio e un 30% di tutti i traffici petroliferi. Guardare al bene delle future generazioni è importante, ma lo è anche farsi carico delle esigenze di quella presente.
Alberto Clô è direttore della rivista Energia
Sul tema petrolio e geopolitica leggi anche:
Petrolio: è davvero ‘tutto a posto’? di Alberto Clò, 1 Ottobre 2019
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Foto: UnSplash
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