20 Gennaio 2020

La realtà è altrove/3: chi deve fare cosa?

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I cambiamenti climatici sono un problema globale e come tale va affrontato. Non si può pensare di fare il proprio compitino “in casa”. Il futuro dipende da ciò che accadrà nei paesi emergenti, e questi non saranno in grado di mutare l’attuale rotta senza un sostanziale sostegno da parte dei paesi del G7. Per contro, costosi se non proibitivi, interventi sulla riduzione delle emissioni nei paesi del G7, invocati, in parte promessi e in minima parte realizzati sono certamente non risolutivi, probabilmente irrilevanti, se non addirittura dannosi.

[segue]

Nel quadro di globalizzazione totale nel quale siamo immersi, risulta tragicomico ragionare per impegni di abbattimento presi da singoli paesi da realizzare “in casa” con pannicelli caldi “alla Merkel” (aumento dei biglietti aerei e riduzione dei biglietti ferroviari) o addirittura controproducenti “alla Macron” (aumento della pressione fiscale in momenti di rallentamento della crescita, anche se in maniera selettiva con l’aumento delle accise sui carburanti e relative manifestazioni dei giletgialli). Per non parlare delle ricette formulate nella nostra Penisola.

Prendiamo il caso italiano: emettiamo meno di un quarto del totale dei maggiori paesi UE, per cui il nostro peso rispetto alle emissioni mondiali è dell’ordine dell’1%. Se, con uno sforzo enorme e potenziali drastici guasti sul tenore di vita e sul sistema economico, l’Italia dimezzasse le proprie emissioni, il beneficio a livello mondiale sarebbe del 5 per mille. Compiendo i paesi europei del G7 analogo sforzo il beneficio sarebbe del 2,5%.

Se con uno sforzo enorme (e danni potenziali su tenore di vita e sistema economico) l’Italia dimezzasse le proprie emissioni, il beneficio a livello mondiale sarebbe del 5 per mille

La Germania invece, nonostante il Piano varato dalla Cancelliera Merkel per uno straordinario impegno tedesco contro i cambiamenti climatici, dà immeritati rimbrotti agli altri paesi ma nasconde le proprie responsabilità: le emissioni tedesche sono infatti oltre il doppio (un fattore 2.2) di quelle italiane (il rapporto passa a 1.6 se si confrontano le emissioni in rapporto agli abitanti e a 1.2 se le si confrontano in rapporto al PIL).

Col paradosso che tutti plaudono alla Germania perché si appresta a raggiungere tra cinque anni il livello di contenimento delle emissioni di CO2 che noi abbiamo già conseguito e la beffa che nessuno apprezza il nostri risultati (ad iniziare da noi stessi e i nostri media), senza considerare che li abbiamo raggiunti senza l’ausilio del nucleare. Siamo all’apoteosi della promessa del figliol prodigo di ravvedersi.

Ma la Germania non è l’unico paese che dovrebbe ravvedersi sulla via di Damasco. L’obbligo morale investe infatti tutti quei paesi, a partire da USA e UE, che importano beni prodotti altrove la cui impronta di carbonio pesa nelle statistiche dei paesi produttori anche se a loro va il beneficio dell’utilizzo del bene importato.

Inoltre dal punto di vista di percorribilità ed efficacia dei processi decisionali, se è vero che l’equità va correlata sulle emissioni pro capite, è ovvio nondimeno che i grandi paesi (anche se hanno emissioni pro capite non eccedenti la media) hanno un impatto maggiore e inevitabilmente una responsabilità oggettiva maggiore.

Tra questi paesi troviamo Stati Uniti, Canada, Australia e Russia, che ancor oggi hanno un’emissione pro capite più che tripla rispetto alla media. Se tuttavia negli ultimi 25 anni USA e la Russia si sono dati da fare per ridurre le emissioni, Australia e Canada sono stati sostanzialmente fermi al loro livello precedente (e nessuno glielo contesta, per esempio in sede G7).

Stati Uniti, Canada, Australia e Russia emettono a livello pro capite oltre tre volte la media mondiale, la Corea del Sud due volte e mezzo, Giappone, Cina e Germania oltre due volte

Il Giappone è fermo ad emissioni pro capite pari al doppio della media e non dà cenni di miglioramento pur avendo mezzi finanziari e tecnologici per fare di meglio. Si è accontentato della gloria di aver ospitato la Conferenza che ha dato luogo al Protocollo di Kyoto, il cui unico lascito è però di essere rimasto lettera morta.

Deve essere fortemente biasimata la Corea del Sud che, partita da emissioni pro capite pari a una volta e mezza la media, è ora a livello di oltre due volte e mezzo la media, pur avendo mezzi adeguati per migliorare (la variazione nei 25 anni è rappresentata da una freccia rossa, l’unica in ascesa in questo quadrante); anche di caso nessuno parla

L’UE a inizio periodo emetteva CO2 per abitante in quantità doppia rispetto alla media mondiale, ora emette solo il 40 percento più della media. Il principale responsabile è – come detto – la Germania che, partita da tre volte la media, non è ancora scesa al di sotto del doppio. Il resto dell’UE, se si esclude la Germania, eccede la media mondiale del 30 per cento. Il merito del contenimento delle emissioni UE va a Francia, Regno Unito e Italia con valori di circa il 15 % superiori alla media mondiale (quello che deve preoccupare riguardo all’Italia è la modesta crescita del PIL rispetto agli altri paesi nostri alleati e competitori, osservazione che dovrebbe indurre a evitare manovre di politica industriale e ambientale con potenziali ulteriori effetti recessivi).

I paesi BRIC hanno visto incrementi consistenti delle emissioni pro capite che sono raddoppiate in 25 anni fino a raggiungere il valor medio. Discorso a parte però è quello che riguarda la Cina che ha raggiunto un valore superiore del 50% la media mondiale (notare che il valore pro capite è quasi del 10 % superiore a quello della UE e corrispondentemente le emissioni totali cinesi sono oltre tre volte quelle della UE).

Ricapitolando a conclusione di questo trittico di articoli, dal punto di vista dell’impatto, la partita in termini di aree geografiche di emissione si gioca nei paesi BRIC (in particolare la Cina) e negli altri paesi con prospettive di crescita; non nei paesi del G7 con la sola eccezione degli USA dove si riscontra un impatto più che doppio rispetto a quello dei paesi UE del G7.

Agire sul sistema produttivo UE non solo ha modesto impatto, ma è anche particolarmente costoso; data la già elevata efficienza del sistema produttivo UE, per la legge tecnico-economica dei rendimenti marginali decrescenti ridurre le emissioni interne ha costo unitario più alto; ha maggior senso quindi concentrare risorse di provenienza UE nei paesi dove si pone l’esigenza di investimenti per accrescere la capacità produttiva e dove questi rendono di più perché è più agevole intervenire per correggere la condizione di bassa efficienza.

I paesi sviluppati (USA e UE) hanno delocalizzato parte rilevante delle loro industrie energy intensive e importano beni prodotti altrove l’impronta di carbonio dei quali, anche se va a loro il beneficio dell’utilizzo del bene importato, pesa invece nelle statistiche dei paesi produttori; la circostanza che una parte significativa delle emissioni nei paesi che le hanno alte sono a beneficio (o “per colpa” come alcuni preferiscono dire) dei paesi avanzati è una ragione in più, dal punto di vista dell’equità, per investire sul contenimento delle emissioni là dove le emissioni hanno luogo.


Fabio Pistella è stato, tra le altre cose, presidente del CNR, membro dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, direttore generale dell’ENEA


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