Il 2019 sembra segnare un cambio di consapevolezza sul fronte dei cambiamenti climatici. Per la prima volta, l’ambiente surclassa nettamente economia, politica, tecnologia tra i maggiori rischi per il Pianeta. Il maggior attivismo dei movimenti ambientalisti e l’accresciuta sensibilità dei media hanno contribuito a mostrare la gravità della questione non solo agli occhi dell’opinione pubblica, ma anche dell’establishment e della finanza. V’è da sperare che ciò contribuisca a un significativo e immediato cambio d’orientamento degli investimenti. Perché la questione cruciale resta la velocità della transizione energetica.
Se la scienza fosse una persona, oggi – di fronte al cumulo terribile di disastri ambientali sparpagliati dalla natura, nel 2019, ai quattro angoli del Pianeta – si alzerebbe in piedi ed esclamerebbe: “ve l’avevo detto, io!”.
Ma la scienza non è una persona, e non può dirlo. D’altra parte, non ci sarebbe nessuno ad ascoltarla, perché l’orecchio del genere umano è ovattato. Mancando una voce e mancando un orecchio, non resta che un turbine di suoni e segnali che – ormai istantaneamente – attraversano il pianeta da un capo all’altro. Quasi sempre inascoltata, la voce della scienza del clima è una delle mille che attraversano l’etere.
Oggi, però, forse qualcosa sta cambiando: il tema del clima trova maggior spazio nei media e, anche, si direbbe, nelle piazze (Fridays for Future). Non è un caso che nel recente Global Risks Report del World Economic Forum, che evidenza i maggiori rischi per il Pianeta nella prossima decade, per la prima volta troviamo nei primi cinque posti due temi ambientali (onde di calore e distruzione degli ecosistemi naturali) e tre nei primi dieci (il terzo tema è incendi).
Ma ancora più significativo è il fatto che nell’analisi di dettaglio che analizza i rischi in termini di probabilità e impatto, troviamo ai primi cinque posti, su una trentina di fenomeni, cinque rischi ambientali: fenomeni climatici estremi, inazione delle politiche climatiche, disastri naturali, perdita di biodiversità, disastri indotti dall’azione dell’uomo.
È la prima volta che ciò accade in 15 anni di storia di un report basato su una survey che sintetizza la percezione di 800 esperti di tutti i paesi. Per la prima volta, l’ambiente surclassa nettamente l’economia, la politica, la tecnologia.
Per la prima volta in 15 anni, l’ambiente surclassa nettamente l’economia, la politica, la tecnologia tra i maggiori rischi per il Pianeta nella prossima decade.
Dunque, il lamento del Pianeta e la voce della natura cominciano ad aprirsi una breccia nell’orecchio indurito di Sapiens che – se non è ipocrisia – inizia a destarsi dal suo torpore stolido. Si potrebbe pensare che ciò sia conseguenza del clamore originato dal 2019, un anno che ha inanellato innumerevoli fenomeni estremi quali gli incendi amazzonici, siberiani, australiani, gli uragani Dorian, Hagibis e Faxai, e i monsoni estremi in Cina e in India (si veda la figura 1, tratta dal report Weather, Climate & Catastrophe Insight 2019 pubblicato recentemente da AON).
È così, ma solo in parte. L’anno è stato certamente terribile, ma non il peggiore del secolo. I danni da eventi climatici sono monetizzabili in 229 miliardi di dollari, valore sopra la media del ventennio ma inferiore rispetto a parecchi degli ultimi 20 anni: il 2005, oppure i quattro anni dal 2010 al 2013, o anche il 2018, hanno causato maggiori danni del 2019 (Fig. 2).
229 miliardi di dollari il danno monetario riconducibile ad eventi climatici nel 2019
D’altra parte, nel 2019 le morti associate a eventi naturali sono state circa 11.000, dato piuttosto in linea con gli ultimi 4 anni. È interessante osservare come non vi sia correlazione tra morti e danno economico: il più alto numero di morti, infatti, è associato agli allagamenti originati dai monsoni indiani (1.750 persone) e al ciclone Idai nell’Africa del Sud (1.303), eventi che hanno causato danni economici non tra i più cospicui (Fig. 3).
Dunque, se la percezione della gravità della questione climatica esplode oggi è perché c’è un effetto amplificazione indotto sia dal maggior attivismo dei movimenti ambientalisti – non è un caso che Greta Thunberg sia stata dichiarata persona dell’anno dal magazine Time – sia dall’accresciuta sensibilità dei media.
Il 2019 è stato un anno terribile, ma non il peggiore del secolo; in prospettiva tuttavia emerge in modo inequivocabile come i disastri naturali siano in crescita
Tutto ciò è certamente positivo, poiché riflesso di una consapevolezza più ampia, potenzialmente generatrice di azione. Soprattutto, la reazione è positiva perché, sebbene il 2019 non sia stato l’anno peggiore, osservando i dati in una prospettiva più ampia emerge in modo inequivocabile come i disastri naturali siano in crescita.
La figura che segue – l’ultima che mostriamo – documenta l’aumento sensibile dei danni arrecati dagli eventi climatici dal 1950 in poi. La crescita è tangibile e drammatica, soprattutto in prospettiva.
Dunque, il cambiamento climatico è già qui tra noi. Spinta dal soffio dei media, la terribile spettacolarità degli eventi estremi ha raggiunto il grande pubblico, che ha finalmente compreso che nessuno può ritenersi al sicuro perché il clima mena fendenti a trecentosessanta gradi, colpendo tanti i paesi poveri – certamente più indifesi – quanto quelli ricchi.
I 18,6 mil. di ettari incendiati in Australia ci mostrano come neanche un paese ricco ed evoluto possa ritenersi al sicuro dai cambiamenti climatici
I 18,6 milioni di ettari incendiati in Australia dimostrano che un paese ricco ed evoluto può improvvisamente essere messo in ginocchio e poco può la potenza tecnologica dell’uomo se è vero, come è vero, che alla fine è stata la pioggia a spegnere gli incendi. Pioggia che poi è diventata un nuovo incubo – perché è così che funziona il clima – allagando le stesse aree che qualche settimana prima pativano le fiamme.
Il combinato disposto di eventi estremi, reattività dei media e movimenti ambientalisti ha fatto sì che il tema ambientale acquistasse evidenza e raggiungesse tanto il grande pubblico quanto l’establishment. Di qui il report del WEF e il nuovo corso di BlackRock, o quello della BEI, nell’orientare i propri fondi. Per ironia della sorte, nel medesimo anno, un economista ambientale – la bulgara Kristalina Georgieva – è andata alla guida del Fondo Monetario Internazionale.
Il lascito del 2019 è, pertanto, un’accresciuta sensibilità ambientale e un mutamento dell’orientamento complessivo della finanza. Per usare le parole espresse da Al Gore a Davos, “non voglio essere ingenuo, ma voglio riconoscere che il centro dell’economia globale ora sta dicendo cose che molti di noi hanno sognato di poter immaginare per molto tempo. Le stanno dicendo con forza ed eloquenza”. Si vedrà se le parole dell’establishment sono gravide di azione oppure sono wishful thinking o, peggio ancora, greenwashing, finzione.
Il 2019 sembra segnare un cambio di marcia da parte dell’establishment e della finanza, vedremo se seguiranno azioni concrete oppure si riveleranno solo wishful thinking o, peggio ancora, greenwashing
Ci piace credere che un nuovo corso dell’establishment e della finanza sia stato avviato. Alla fine, in un modo o nell’altro, le fiamme australiane e i venti di Dorian hanno lambito anche i famigerati palazzi del potere, inducendo un cambio di prospettiva che potrebbe mutare in modo significativo l’orientamento degli investimenti futuri.
Perché questo, in ultimo, è ciò che è in gioco: la direzione e l’entità degli investimenti mondiali. La questione cruciale rimane quella della velocità di tale processo, essendo il tempo la variabile chiave della sfida climatica: a nulla vale chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. E il rischio che ciò accada c’è, e non è piccolo.
Qualche giorno in fa, in Antartide, la temperatura ha superato la soglia dei 20 °C, la più alta mai misurata a quelle latitudini. Non c’è spazio, oggi, per l’eterno gattopardo che nell’umano alberga.
Enzo Di Giulio è membro del Comitato Scientifico di «Energia»
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