24 Febbraio 2020

European Green Deal: la nostra “corsa alla Luna”

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Annunciare lo European Green Deal non equivale a raggiungerlo. La missione è epocale e rivoluzionaria. Eppure grande è la fiducia riposta nella sua riuscita, nonostante l’ambizione delle promesse e la scarsità delle premesse. Per muoversi oltre gli annunci bisogna avere contezza degli ostacoli, definire un’agenda che indichi puntualmente le condizioni necessarie al suo realizzarsi, adoperarsi con urgenza per attuarle. In caso contrario, saremmo di fronte all’ennesima vuota declamazione.

Poco più di un mese dopo il primo lancio di un uomo nello spazio (Yuri Gagarin) da parte dell’Unione Sovietica (12 aprile 1961) John F. Kennedy in un famoso discorso al Congresso (25 maggio 1961) affermò: “I believe that this nation should commit itself to achieving the goal, before this decade is out, of landing a man on the moon and returning him safely to the earth”.

Vi riuscì. Aggregando le migliori menti del paese e destinando una spesa pubblica di 98 miliardi dollari (150 ai prezzi d’oggi), gli Stati Uniti avrebbero consentito dopo otto anni e due mesi, il 20 luglio 1969, a Neil Amstrong di allunare al termine della missione Apollo11.

Circa sessant’anni dopo, l’11 dicembre 2019, il nuovo presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen ha lanciato, a suo dire, il “man-on-moon moment‘” europeo: lo European Green Deal (EGD). Un’opera ciclopica che dovrebbe consentire all’Europa, sempre a suo dire, di raggiungere nel 2050 una piena ‘neutralità carbonica’.

Lo European Green Deal è un’opera senz’altro meno suggestiva dello sbarco sulla Luna, ma non meno ciclopica ed importante per i destini dell’umanità, anzi, eppure è stata accolta con minor stupore come fosse questione di ordinaria amministrazione

Un’opera meno suggestiva di quella lunare, ma ancor più importante per i destini dell’umanità. Mentre le parole di Kennedy lasciarono il mondo a bocca aperta, tanto l’impresa sembrava impossibile, quelle di Ursula Von der Leyen sono state invece accolte con assoluta normalità ed anzi soddisfazione da governi, movimenti ambientalisti, grandi organi di stampa, quasi fossero pienamente e facilmente fattibili.

In fondo, si potrebbe dire, gli ingredienti ci sono tutti: la volontà politica, i denari, le innovazioni tecnologie low-carbon, l’impegno del mondo delle imprese, l’accresciuta sensibilità delle popolazioni.

Temo che le cose siano molto più complesse. Per la semplice ragione che quel che si propone è una vera e propria rivoluzione economica, industriale, sociale, comportamentale.

Per rendersene conto è necessario in primo luogo aver chiaro quel che effettivamente significa l’EGD. La Comunicazione della Commissione dell’11 dicembre 2019 in cui la si propone afferma che: “The European Green Deal is a response [to climate and environmental-related challenges]. It is a new growth strategy that aims to transform the EU into a fair and prosperous society, with a modern, resource-efficient and competitive economy where there are no net emissions of greenhouse gases in 2050 and where economic growth is decoupled from resource use”.

In sintesi: trasformare radicalmente, come ha scritto Lucrezia Reichlin sul ‘Corriere della Sera’ del 16 febbraio: “il modello di consumo che fin qui ha caratterizzato le nostre società” disaccoppiando l’economia dall’uso delle risorse (energetiche e non) per azzerare le emissioni nette di gas serra.

4 ostacoli da superare lungo la strada dello European Green Deal

Quali gli ostacoli da superare?. Primo: aver piena contezza di cosa si intenda per ‘net emissions’. In sintesi: conseguire un equilibrio globale tra tutte le emissioni di gas serra immesse in atmosfera e quelle sottratte dall’atmosfera. Due le azioni parallele per riuscirvi:
(a) ridurre drasticamente le emissioni prodotte al 2030: dal 40% (rispetto al 1990) finora deliberato dalla UE al 50%-55% proposto dalla nuova Commissione;
(b) neutralizzare le emissioni residue con strumenti naturali (ad es. riforestazione) o artificiali (ad es. tecnologie CCS).

Un secondo ostacolo è chi mette a disposizione i denari: gli (almeno) 2.600 miliardi addizionali (da sottrarre ad altre destinazioni: quali?) che la Commissione stima debbano essere investiti nel decennio in corso, ma destinati inevitabilmente ad essere superiori se l’asticella delle emissioni verrà ulteriormente ridotta. Risposta di Bruxelles: i denari non mancano, verranno da Unione Europea, dalla Banca Europea degli Investimenti, da istituzioni finanziarie, da Stati membri e privati.

A investire saranno direttamente i singoli Stati e le imprese (private o pubbliche che siano), una volta accertata la natura green degli investimenti attraverso il prontuario “energy taxonomy” approvato dall’Unione.

Qui si prospetta un altro ostacolo, il terzo: il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) che ha rafforzato le politiche di vigilanza su deficit e debiti pubblici e che bisognerebbe modificare per dare agli Stati maggiori spazi di manovra.

La revisione del Patto di Stabilità e Crescita non sarà un processo facile né rapido  

Il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis si è detto disponibile a “studiare forme per favorire investimenti che siano legati alle grandi priorità europee, a partire dal clima”, che pur preservando la stabilità delle finanze modifichi le attuali maglie piuttosto strette che impongono che gli investimenti eligibili siano quelli effettuati dal Paese membro su progetti cofinanziati dall’UE nell’ambito della politica strutturale e di coesione, delle reti transeuropee, nonché il cofinanziamento nazionale dei progetti cofinanziati dallo European Fund for Strategic Investments (EFSI), più noto come Piano Juncker.

Da qui si è avviato nelle settimane scorse un processo di revisione delle regole del PSC, che non sarà di rapida approvazione vista la ferma opposizione degli Stati del Nord Europea ad allentare le politiche del rigore. A ciò si aggiunga il durissimo scontro all’ultimo Consiglio Europeo sull’entità del prossimo Bilancio dell’Unione per il periodo 2021-2027 (senza più i contributi della Gran Bretagna) ove la proposta della Commissione di impegni degli Stati per l’1,11% del reddito nazionale (in totale 1.134 miliardi euro) è stata duramente respinta dai paesi del Nord che non vogliono si superi la soglia dell’1,0%! Un primo smacco per l’EGD.

Ammesso e non concesso si riesca comunque a raggiungere un compromesso sul prossimo Bilancio europeo, si palesa un ulteriore ostacolo, il quarto, riassumibile in un interrogativo: lo Stato, sia centrale che periferico, come potrà investire i denari ricevuti da Bruxelles (spiccioli) o finanziati dalla BEI o tratti dai propri bilanci?

Con quali modalità gli Stati possono investire?

Lo potrà fare combinando le modalità di erogazione dei finanziamenti con le regole del mercato o modificando queste quando non compatibili. Il Commissario all’economia di Bruxelles presentando il Piano europeo per gli investimenti sostenibili, ha dichiarato: “Rivedremo, possibilmente correggeremo, la normativa europea sugli aiuti di Stato in linea con gli obiettivi politici del Green deal”. Nel testo adottato dal collegio dei commissari, si indica la “fine del 2021” come scadenza entro la quale effettuare tale revisione.

Residueranno così appena otto anni per realizzare la rivoluzione necessaria a raggiungere i nuovi obiettivi fissati alla Commissione al 2030 (se approvati dal Consiglio). Un periodo simile a quella che servì all’America per arrivare sulla Luna.

Superati questi ostacoli gli Stati, a livello centrale o nelle articolazioni periferiche, disporranno di maggiori capacità di spesa per rafforzare le infrastrutture che si ritengano sostenibili (attraverso procedure di gara); potranno accrescere l’onere delle detrazioni fiscali per l’efficientamento energetico degli edifici, per la mobilità sostenibile, e così via. Ma, per converso, non potranno devolvere direttamente finanziamenti per la costruzione di gasdotti o linee di trasmissione elettrica, né tantomeno sussidi alle imprese per lo sviluppo delle rinnovabili, incompatibili con un sistema di mercato e le regole europee.

Le imprese private continueranno a giocare un ruolo critico per il successo della missione

La disponibilità delle imprese a investire in tecnologie low-carbon (rinnovabili e non) resterà determinante. Ciò dipenderà dalle aspettative di redditività ma, ancor prima, dalla rapidità dei processi autorizzativi. Fattore, quest’ultimo, che in Italia è causa in modo patologico del blocco di ogni progetto di investimento, anche e soprattutto nelle rinnovabili.

Morale: prima di entusiasmarsi per il ‘man on the moon’ europeo, ritenendo possa facilmente allunare, bisogna definire un’agenda che indichi puntualmente le condizioni necessarie al realizzarsi dell’EGD e adoperarvisi con urgenza per attuarle. In caso contrario, saremmo di fronte all’ennesima declamazione, come alla prova dei fatti verificatosi con l’Accordo di Parigi del 2015.

Riprendendo le parole di Lucrezia Reichlin: “il green deal è qualcosa di più di un insieme di politiche. È una missione che definisce una nuova identità dell’Europa sulle politiche ambientali. Ma definire una missione non significa necessariamente portare a casa i risultati”.   


Alberto Clô è direttore della rivista Energia

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Foto: Pixabay

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