La questione ambientale e climatica torna a fare capolino nel confronto elettorale USA dopo esser stata ampiamente trascurata nello scorso appuntamento, almeno dal lato democratico. Nella non scontata riconferma di Donald Trump, in questa tornata ambiente e clima potrebbero giocare un peso non indifferente nelle scelte degli elettori. Pro e contro vi sono per le posizioni di entrambi gli schieramenti, ma forse i democratici (con il candidato ancora in ballo) giocano la partita più delicata in termini di consenso.
Nelle campagne elettorali degli ultimi anni – statunitense, francese, tedesca, italiana – la questione ambientale non è stata minimamente trattata. Perché farlo senza infingimenti non avrebbe raccolto consensi elettorali per le misure dolorose che si sarebbero dovute proporre. Così fu nella campagna presidenziale del 2016 tra Donald Trump e Hillary Clinton che spinse Paul Krugman a scrivere di un loro comportamento “irresponsabilmente criminale”.
Da allora le cose sono di molto cambiate. Per la prima volta, l’ambiente, il clima, sono divenuti temi prioritari nello scontro per la corsa alla Casa Bianca che si terrà il 3 novembre. Il motivo è duplice.
Da un lato, la grande rilevanza assunta dalla lotta ai cambiamenti climatici nelle politiche della maggior parte dei paesi (al di là degli scarni risultati conseguiti) e l’isolamento in cui si è trovata l’America per la posizione negazionista di Trump.
Dall’altro lato, la crescente percezione nell’opinione pubblica americana degli effetti dirompenti del surriscaldamento con l’intensificarsi degli eventi estremi in Nord America: ben 14 nel solo 2019 con incendi in California, tornado in Texas, uragano Dorian, etc. Eventi che hanno lasciato il segno nei sentimenti dell’opinione pubblica con circa il 70% degli elettori che si dice convinto e ‘preoccupato’ dei cambiamenti climatici e un terzo ‘molto preoccupato’. Come influirà tutto questo nelle loro scelte?
Negli Stati Uniti la questione ambientale è stata storicamente bipartisan
Negli Stati Uniti la questione ambientale è stata storicamente bipartisan. Fu il democratico Lindon B. Johnson a promulgare nel 1963 la prima versione del Clean Air Act mentre fu il repubblicano Richard Nixon (1968-1974) nel 1970 a emanare il National Environmental Policy Act e istituire l’Environmental Protection Agency sul convincimento, ebbe a dire, che “le nostre risorse naturali sono fragili e finite […] e gli Stati Uniti devono vincere la guerra contro il degrado ambientale e far pace con la natura”. Fu lui a promulgare nel novembre 1973 il ‘Project Independence’ che intendeva promuovere l’impiego di fonti energetiche alternative al petrolio, specie il nucleare, e il risparmio energetico
Le cose cambiarono con Ronald Reagan (1981-1989) che appena eletto cancellò le politiche di Jimmy Carter (1977-1981) a favore della ‘conservazione energetica’, come allora si indicava, e dell’energia solare, abbattendo i pannelli che aveva fatto installare sulla Casa Bianca. Anche nell’energia, era il suo credo, a decidere non doveva essere la mano pubblica ma quella invisibile del mercato. Nel 1987 Reagan sottoscrisse comunque il ‘Protocollo di Montreal’, primo grande accordo internazionale che risolse in gran parte la minaccia del ‘buco dell’ozono’.
Il convincimento che la regolazione ambientale costituisse un handicap per l’economia americana ha caratterizzato tutte le successive presidenze: da quella del repubblicano George Bush Jr. a quella del democratico Bill Clinton, che bocciò la ratifica del Protocollo di Kyoto a quella di Barack Obama che fece naufragare la Conferenza delle Nazioni Unite di Copenaghen del 2009 e i cui due mandati verranno ricordati per la più elevata crescita della produzione di petrolio e metano (6,3 mil.bbl/g) dal secondo dopoguerra. Similari a quelli di Trump – se non nei toni – gli argomenti che hanno frenato le politiche ambientali: proteggere l’economia e rafforzare l’indipendenza energetica.
Obama aveva l’opportunità di conferire al Clean Power Plan forza legislativa, ma non lo fece, facilitando di fatto il suo successivo smantellamento da parte di Trump
Solo nel suo secondo mandato Obama avviò misure pro-ambiente specie con la promulgazione nel 2015 del Clean Power Plan (CPP) con i primi impegni di riduzione delle emissioni nella generazione elettrica. Lo fece tuttavia con provvedimenti amministrativi, perdendo l’opportunità di dar loro forza legislativa, nonostante la forte maggioranza su cui poteva far conto al Congresso. Un errore che ha facilitato l’azione di Donald Trump nello smantellare quel che Obama aveva deciso e l’uscita dall’Accordo di Parigi.
Le cose dal 2016, si diceva, sono di molto cambiate. Nella non scontata riconferma di Donald Trump, anche alla luce delle elezioni di mid-term (riconquista della Camera da parte dei democratici, col Senato rimasto ai repubblicani), il tema ambientale potrebbe giocare un peso non indifferente nelle scelte degli elettori non solo democratici.
Vi
sono fattori che giocano a favore o a sfavore dei due fronti. A sfavore di
Trump gioca:
a) il suo negazionismo dei cambiamenti climatici;
b) l’interruzione nel 2018 della tendenziale riduzione delle emissioni di
anidride carbonica (2007-2017: -1,4% m.a.);
c) l’atteggiamento di una larga parte dei repubblicani moderati, essenziali
alla sua rielezione, allarmati dai disastri in Florida, Texas, Midwest.
I pro e contro delle posizioni di Trump
Per
contro, Trump ha messo a segno risultati di non poco conto:
a) il continuo aumento della produzione di metano e petrolio nel suo mandato (stimabile
in 5,5 mil.bbl/g) che ha consentito agli Stati Uniti una quasi piena indipendenza
energetica, da sempre ossessione di ogni inquilino della Casa Bianca;
b) un crollo delle importazioni di greggio dai paesi ostili del Medio-Oriente
con conseguente ampia libertà d’azione degli Stati Uniti sulla scena politica
internazionale (lo si è visto col blitz in Iraq);
c) l’indiscutibile rafforzamento della sicurezza nazionale.
Gli Stati Uniti sono divenuti leader nella produzione di petrolio (16% totale mondiale) e di metano (21%) con suoi prezzi la metà di quelli europei. Ne ha tratto beneficio l’economia, l’industria, le merci statunitensi col reshoring di produzioni prima dislocate in Cina o Vietnam. Non a caso il nuovo slogan di Trump è “Keep America Great”.
Questi risultati potrebbero non essere tuttavia sufficienti a controbilanciarne le ragioni di debolezza che abbiamo citato. Un’involontaria mano a Trump potrebbe tuttavia venire proprio dai democratici qualora chi ne sarà il candidato – lo si saprà solo alla Convention di metà luglio – sosterrà le proposte ambientaliste più estreme. A iniziare da quella denominata ‘Green New Deal’ (GND) (poi scimmiottata dall’Unione Europea) avanzata lo scorso anno dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortez e dal senatore Ed Markey, che riecheggia il piano di riforme di Franklin D. Roosevelt di 76 anni fa per risollevare le sorti dell’America dopo gli anni della Grande Depressione.
Suo obiettivo è di ridurre le emissioni di gas serra sino ad azzerarle al 2050 (idem nel GND europeo). Obiettivo talmente ambizioso da richiedere una rivoluzione dell’intera economia e società americana: nelle fabbriche, in agricoltura, nell’edilizia, nei trasporti, negli stili di vita.
Sul fronte dei democratici ancora non è dato sapere se verranno assunte posizioni più estreme (come quelle di Biden, Bloomberg e Sanders) o più moderate
All’entusiastico sostegno dei movimenti e delle lobby ambientaliste si sono contrapposte reazioni negative dell’intero mondo repubblicano ma anche della parte moderata di quello democratico. Perché comporterebbe, a dire dell’Heritage Foundation, un costo elevato per ogni famiglia, la perdita di 1,2 milioni di posti di lavoro all’anno sino al 2040, un minor prodotto interno lordo di oltre 25 mila miliardi di dollari.
Ma, ancor prima, perché proposta di stampo dirigista che secondo molti farebbe deragliare il sistema americano verso il socialismo e perciò fortemente invisa alla società americana che vede nella libertà individuale, nell’economia di mercato, nei valori imprenditoriali i pilastri del sistema americano.
Nel merito, la proposta di GND non si limita infatti a sostenere il tout renouvelable nella generazione elettrica (con soldi pubblici) ma contiene anche misure di natura sociale (assistenza sanitaria gratuita, salario di sussistenza familiare; fornitura di alloggi etc.) che nulla hanno a che fare con le tematiche ambientali.
Nell’incertezza su chi sarà tra i 12 candidati democratici quello che sfiderà Trump, non è dato sapere se la bandiera della lotta cambiamenti climatici verrà issata nelle proposte più estreme.
La risposta è positiva scorrendo le posizioni espresse dai candidati più accreditati: da quella del Sen. Joe Biden di un piano da 1.700 miliardi di dollari per una “Clean Energy Revolution” che consenta di raggiungere la carbon neutrality al 2050, a quella di Mike Bloomberg favorevole ad un immediato phase out di tutte le centrali a carbone e una clean-energy economy al 100% prima del 2050; a quella del Sen. Bernie Sanders con un piano ancor più ambizioso.
Simili proposte non troveranno, a dire dei sondaggi, largo consenso nell’elettorato americano così spianando la strada alla rielezione di Donald Trump.
La corsa alla Casa Bianca sarà decisiva per il futuro del Pianeta, cruciale è infatti il coivolgimento diplomatico degli Stati Uniti
Il responso delle urne del 3 novembre segnerà comunque non solo il futuro americano ma quello dell’intero Pianeta, perché condizione essenziale per conseguire un qualche successo nella lotta al surriscaldamento è la cooperazione internazionale cui bisognerebbe comunque puntare attraverso un’accorta climate diplomacy verso gli Stati Uniti.
Battaglie unilaterali, come quella intrapresa dall’Europa, del tutto incurante dell’azione altrui, salvano la coscienza ma non il Pianeta, per l’effetto marginale che avrebbero sulle emissioni globali.
Quali scenari dagli esiti elettorali del 3 novembre? La rielezione di Trump rafforzerà l’industria petrolifera e del metano, rinsalderà le sue erratiche politiche verso Iran, Venezuela, Arabia Saudita, non favorirà la transizione energetica.
Per converso una vittoria dei democratici reinserirà l’America nelle relazioni climatiche internazionali, renderà più difficoltosa la vita all’industria degli idrocarburi e alla crescita della produzione interna Made in USA, indirettamente rafforzando il ruolo dei paesi Opec e della Russia nei mercati internazionali oil&gas.
Non resta che attendere l’esito.
Alberto Clô è direttore della rivista Energia
Sul tema Elezioni USA leggi anche:
L’incredibile autogol dell’Asinello americano, di Alberto Clò, 31 Luglio 2019
Foto: Pexels
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