Il tempo è la variabile chiave nella lotta ai cambiamenti climatici. Non si può parlare di transizione energetica, di soluzioni, di record e di risultati trascurando la questione temporale. Altrimenti si cade nella pura e sterile retorica. Meglio è invece mettere in fila alcuni fatti incontrovertibili.
Non si ripeterà mai a sufficienza che la questione chiave della transizione energetica è il tempo. Ed è così perché la transizione corrente, a differenza delle precedenti, non è una mera questione di penetrazione di una fonte a scapito delle altre, quanto una lotta contro un nemico che avanza inesorabilmente: il cambiamento climatico.
Il tempo è dunque la variabile chiave e tutte le riflessioni che beatificano la transizione in corso prescindendo dalla questione temporale occultano la dimensione chiave cadendo nella retorica. Ogni volta che si parla di un record di penetrazione dell’eolico, di un crollo del costo di generazione del kWh del solare o della penetrazione dell’auto elettrica ci si dovrebbe chiedere: è sufficiente?
Più che il verso del vettore, infatti, ciò che conta è il suo modulo e, fino ad oggi, il modulo è parecchio insufficiente. Insufficiente per cosa? Per ridurre le emissioni di carbonio in misura tale da contenere l’incremento di temperatura entro i 2°C, o ancor meglio entro un grado e mezzo.
Vediamo meglio mettendo in fila alcuni fatti incontrovertibili: oggi le emissioni di anidride carbonica associate ai consumi energetici veleggiano sui 33 miliardi di tonnellate all’anno (mld tCO2/a) ed entro il 2040 dovrebbero abbassarsi fino a raggiungere quota 16 mld tCO2/a se si intende contenere l’incremento di temperatura (scenario SDS IEA, 1,8°C). In altri termini, è necessaria una riduzione complessiva della CO2 emessa pari al 48%, ovvero un decremento del 3,3% annuo.
Per contenere l’aumento di temperatura, le emissioni dovrebbero calare entro il 2040 del 3,3% annuo, in netta controtendenza con la crescita dell’1,1% registrata nell’ultimo decennio, nonostante i continui impegni e proclami come l’Accordo di Parigi del 2015
Questo dato deve essere confrontato con l’andamento pregresso. Nel lungo periodo, dal 1990 al 2018 (ultimi dati IEA ufficiali disponibili), esse sono aumentate da 20,5 mld tCO2/a a 33,2, ovvero dell’1,8% annuo. Nel periodo 2010-2018, invece sono cresciute dell’1,1%, ossia più recentemente le cose vanno un poco meglio, ma il trend è sempre in crescita, laddove l’obiettivo di Parigi richiederebbe un decremento annuo della CO2 pari al 3,3%. Nel 1990 la quota di combustibili fossili era pari all’81%, nel 2018 era pari … all’81%. La perentorietà del numero pone una domanda secca: dov’è la transizione energetica?
Tale inerzia del mix energetico è puntualmente registrata da una variabile che più di ogni altra offre un’informazione puntuale sulla transizione in atto, ovvero l’intensità carbonica dell’energia, cioè il rapporto tra emissioni di CO2 e consumi energetici. Nel 1990 essa era pari a 2,39, oggi essa è pari a 2,32.
Basterebbe la considerazione di quest’ultimo dato per comprendere che nella narrazione della transizione energetica in atto c’è qualcosa che non va: in quasi 30 anni il miglioramento di intensità carbonica è stato pari a 0,07 tCO2/tep!
L’intensità carbonica è il rapporto tra emissioni di CO2 e consumi energetici: ci dice se stiamo andando verso un’economia low carbon grazie ad un aumento delle rinnovabili, ma in quasi 30 anni questo rapporto è stato a malapena scalfito
In altre parole, l’intensità carbonica rimane pressoché ferma, nell’intorno del valore del gas naturale (2,3-2,4) laddove quella delle rinnovabili – che rappresenta la destinazione ideale e finale – è zero. In sintesi, lo spostamento del mix energetico mondiale verso le fonti rinnovabili è minimo, lentissimo e, dunque, del tutto insufficiente.
L’unica consolazione è che 0,05 punti dei 0,07 complessivi ridotti nei 28 anni dal 1990 al 2018, sono stati prodotti negli ultimi 8 anni. Ciò significa che a partire dal 2010 si assiste a una moderata accelerazione della velocità di decarbonizzazione del mix, comunque assolutamente insufficiente a portare il sistema verso gli obiettivi di Parigi.
Si potrebbe obiettare che tali dati sono legati al fatto che si sta considerando la domanda di energia primaria e che se ci si concentrasse sul settore elettrico si vedrebbe il balzo delle fonti verdi.
La situazione non è migliore se si volge lo sguardo al settore elettrico, anzi la sua intensità carbonica è addirittura peggiorata!
Rispondiamo con due osservazioni: la prima è che purtroppo l’atmosfera non distingue tra CO2 da energia primaria, da elettrico o da consumi finali: ciò che conta è l’ammontare di CO2 complessiva, ovvero quella associata alla domanda primaria.
La seconda è che – udite, udite – se si fa uno zoom sul settore elettrico emerge un dato ancora più tetro: si è passati da un’intensità carbonica del mix elettrico pari a 2,50 nel 1990 – si noti, il valore è più alto di quello della domanda primaria – al 2,52 del 2018.
In parole povere, l’intensità carbonica della generazione elettrica è cresciuta anziché diminuire! Il risultato è disperante se non fosse che, effettivamente, negli ultimi 8 anni c’è stato un certo miglioramento, visto che nel 2010 l’intensità carbonica del settore elettrico mondiale era salita a 2,60 e nel 2018 è scesa a 2,52.
Il ritmo è fiacco assai (0,01 ogni anno) e del tutto insufficiente, ma è pur qualcosa. L’andamento sconcertante si riflette inesorabilmente nel dato delle emissioni totali del settore: dal 1990 al 2018 crescono ad un ritmo del 2,2% annuo.
Si registra sì un piccolo miglioramento tra il 2010 e il 2018, ma a onor del vero è di poco conforto..
C’è un piccolo miglioramento nel periodo 2010-2018 (+1,3%) che non deve affatto confortare perché, primo, le emissioni dovrebbero diminuire, e secondo, tale riduzione dovrebbe essere pari al 5,7% annuo (scenario SDS IEA), se si vuole rispettare l’Accordo di Parigi.
Riassumendo:
Uno, da 28 anni il mix energetico mondiale è bloccato su una quota delle fonti fossili pari all’81%, con le rinnovabili che aumentano di un solo punto percentuale, dal 13 al 14%.
Due, da 28 anni l’intensità carbonica della domanda primaria staziona nella fascia 2,3-2,4 tCO2/tep.
Tre, da 28 anni, l’intensità carbonica della generazione elettrica è ferma nella fascia 2,60-2,50.
Quattro, negli ultimi otto anni le emissioni globali sono cresciute annualmente dell’1,1% (1,8% dal 1990) mentre dovrebbero diminuire del 3,3%.
Cinque, negli ultimi otto anni le emissioni dell’elettrico sono cresciute annualmente dell’1,3% (2,2% dal 1990) mentre dovrebbero diminuire del 5,7%.
Riportiamo questi dati sconfortanti nella tavola sottostante e riproponiamo la domanda posta sopra: dov’è la transizione energetica?
Non troviamo migliore risposta di quella contenuta nelle parole che Vaclav Smil scriveva dieci anni fa nel suo libro Energy Transitions. History, requirements, prospects:
“C’è solo una cosa che tutte le transizioni energetiche su larga scala hanno in comune: a causa vincoli tecnici e infrastrutturali e di numerose (e spesso del tutto imprevedibili) implicazioni sociali ed economiche (limiti, feedback, aggiustamenti), le transizioni energetiche che si svolgono su scala globale sono fenomeni intrinsecamente prolungati. Di solito esse impiegano decenni per realizzarsi e maggiore è il grado di dipendenza da una particolare fonte di energia, più gli usi e le conversioni prevalenti sono diffusi, conversioni, più tempo impiegherà la sostituzione. Questa conclusione può sembrare ovvia, ma è comunemente ignorata: altrimenti non avremmo tutte quelle previsioni ripetutamente fallite di imminenti trionfi di nuove fonti”.
Tutte le transizioni energetiche (…) sono fenomeni intrinsecamente prolungati. (…) Questa conclusione può sembrare ovvia, ma è comunemente ignorata: altrimenti non avremmo tutte quelle previsioni ripetutamente fallite di imminenti trionfi di nuove fonti – Vaclav Smil
Questo commento ben si addice all’odierna retorica sulla transizione energetica che, come abbiamo visto, è fenomeno lentissimo. Come dice Smil, ci vuole tempo. Il carbone ha dovuto attendere 60 anni per vedere la sua quota salire dal 5 al 50%, lo stesso dicasi del petrolio che ha impiegato un pari numero di anni per passare dal 5 al 40%, mentre il gas ha visto la sua quota passare dal 5 al 25% in quaranta anni.
Oggi eolico e solare coprono circa il 2% della domanda primaria. Se i tempi di penetrazione sono quelli delle altre fonti, il pianeta è spacciato: solo salti tecnologici oggi non prevedibili o una stagnazione economica che duri decadi può salvarlo.
Questo quadro fosco, che emerge nonostante la regolazione ambientale benevola, è un fatto, ed è tale perché è così che le transizioni energetiche avvengono: ci vuole tempo.
Anche la grande transizione statunitense che ha visto il carbone spiazzato dal petrolio e dal gas ha tempi simili: dagli anni ‘20 agli anni ‘70 il primo scende da quasi l’80% al 20% mentre il secondo e il terzo salgono, rispettivamente, al 50 e al 30%. Ciò accade perché le nuove fonti penetrano in modo incrementale, ovvero seguendo l’espansione di nuova domanda energetica e il ciclo di vita delle tecnologie.
La grossa massa della domanda è soddisfatta dalle fonti già affermate e le rinnovabili lavorano al margine, sulla nuova domanda, perché rimpiazzare una centrale elettrica a gas o anche un semplice boiler di appartamento non è come comprare un telefonino nuovo. E infatti, tutti noi ricordiamo quando abbiamo acquistato il nostro telefonino ma facciamo fatica a ricordare a quale anno risale l’installazione del boiler.
Di qui l’isteresi delle fonti e la lentezza della transizione che avviene, come abbiamo visto, sulla seconda cifra decimale di quella variabile importantissima che è l’intensità carbonica. Riconoscere questo problema, e cercare di risolverlo, è realismo. Ignorarlo, e decantare la transizione energetica, è retorica.
Enzo Di Giulio è membro del Comitato Scientifico di «Energia»
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Foto: Renato Acquaviva
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