Oltre che sulla salute, il coronavirus sta producendo gravi conseguenze anche su economia e domanda di energia. Tutte le fonti sono interessate, a cominciare dal petrolio, i cui prezzi sono crollati. Non solo per ragioni tecniche ed economiche, ma anche e soprattutto politiche. La Russia ha rifiutato l’accordo con l’Opec, ma a rimetterci sarà anche lei. Le guerre dei prezzi, infatti, danneggiano tutti a iniziare da chi le provoca.
La globalizzazione del coronavirus sta producendo gravi conseguenze sulla salute di una popolazione sempre più vasta, tanto che si parla di oltre centomila contagiati nel mondo. Ma anche sull’economia e sulla domanda di energia, a partire da quella cinese il cui drastico calo dell’attività industriale ha portato a una caduta delle emissioni di CO2 del 20%. Rallegrarsene è tuttavia a dir poco vergognoso.
Tutte le fonti di energia sono interessate dal crollo della domanda a cominciare dal petrolio. L’Agenzia di Parigi stima nel caso base dell’Oil Market Report uscito stamane (9 marzo) un calo di 1,1 mil.bbl/g rispetto alle previsioni di crescita per il 2020, con una riduzione sul 2019 di 90 mila bbl/g: da 100 a 99,9 mil.bbl/g.
Cala la domanda di petrolio, ma l’offerta tarda ad adeguarsi. Per più ragioni
Al calo della domanda, l’offerta tarda ad adeguarsi. Da una parta, ragioni sia tecniche che economiche spingono per la convenienza delle imprese a non ridurre l’offerta fino a quando i margini di contribuzione (ricavi meno costi variabili) saranno positivi. In sostanza la domanda – gli ordinativi delle raffinerie e a ritroso delle compagnie aeree, delle fabbriche, dei distributori di carburanti etc. – calano più rapidamente della offerta.
Dall’altra, ancor più importante, lo scontro esploso tra Opec e Russia nell’applicare ulteriori tagli alla produzione, portando quelli già decisi sino a 3 mil.bbl/g. Lo scontro ha prodotto un crollo dei prezzi del petrolio di un’intensità mai vissuta.
La Russia ha rifiutato l’accordo con l’Opec dichiarandosi intenzionato ad aumentare la produzione da 9 a 10 o 11 mil. bbl/g
In sole 4 sedute borsistiche, dal 2 al 6 marzo, il Brent (scadenza maggio) è caduto di 6,6 doll/bbl a 45,27 doll/bbl, pari al -12,7%, per conoscere la mattina del 9 marzo, mentre scriviamo, un ulteriore crollo del 30%, poi ridottisi al 20% (ore 12.00 a.m.) a 36 doll/bbl. Un calo in una settimana di 15,9 doll/bbl pari al 30,6%.

La ragione, riporta il Financial Times di stamane, è la ‘guerra dei prezzi’ lanciata nel fine settimana dall’Arabia Saudita in risposta al rifiuto della Russia di accettare l’accordo concluso all’interno dell’Opec, decidendo di aumentare la sua produzione dai 9 mil.bbl/g. che si era detta disposta a produrre, a 10 se non a 11 mil.bbl/g, annunciando sconti fino al 20%.
Come nei precedenti contro-shock dei prezzi del 1986 e del 2014, l’obiettivo dell’Arabia Saudita è difendere le sue quote di mercato, impedendo ad altri – un tempo, il greggio del Mare del Nord o dell’Alaska; oggi lo shale oil americano – di costringerla a sacrificare la sua produzione per sostenere i prezzi avvantaggiando i suoi concorrenti.
Il crollo del petrolio ha contagiato le borse azionarie e le monete dei paesi produttori, compresa la Norvegia
Un ribasso ed una guerra che riporta alla mente quella che si ebbe nel 1926-1927 tra Royal Dutch Shell e Standard of New Jersey (poi Exxon) che portò all’infruttuoso accordo di cartello concluso nel castello scozzese di Achnacarry tra Anglo-Persian Oil Company (poi BP), Shell, Standard.
Il crollo del petrolio ha contagiato le borse azionarie, con una contrazione di Wall Street superiore al 5%, e le monete dei paesi produttori, a iniziare dalla corona norvegese che ha ceduto sul dollaro il 4,7%, il più basso livello dal 1985.
Con prezzi piombati sotto i 40 dollari, anche la Russia avrà difficoltà a finanziare il bilancio statale
Ma a rimetterci sarà nondimeno la Russia. Alla vigilia del vertice Opec a Vienna del 5 marzo il Presidente Vladimir Putin affermò, in dissenso col Ministro dell’energia Alexander Novak che si era detto favorevole a proseguire l’intesa con l’Opec, di ritenere “accettabili” gli attuali prezzi, tra i 50 e i 55 doll/bbl, perché “superiori ai 42,4 dollari al barile per il greggio Brent usato come base per la nostra politica macroeconomica”. Con prezzi piombati sotto i 40 dollari avrà difficoltà a finanziare il bilancio statale.
Le guerre dei prezzi danneggiano tutti a iniziare da chi le provoca. Così accadde in quella del 1986 e del 2014. Goldman Sachs, in pieno conflitto di interessi essendo primario operatore sul mercato finanziario del petrolio, ha abbassato le sue previsioni per il Brent nel 2° e 3° trimestre dell’anno a 30 doll/bll. In passato le sue previsioni non si avverarono (nel 2008 sparò prezzi a 200 doll/bbl), ma condizionarono non poco le transazioni traendone grande vantaggio. Speriamo non accada anche questa volta, perché, come ha chiuso l’articolo del Financial Times, “This is a collective suicide with a lose-lose conclusion”.
Alberto Clô è direttore della rivista Energia
Foto: Pixabay
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